di Michele Governatori (Radicali italiani) in collaborazione con Zelda Raciti (Radicali Italiani).
Ha senso tirare fuori il petrolio e il gas del nostro sottosuolo? Questo tema è tornato molto d’attualità dopo che prima la strategia energetica nazionale del marzo 2013, poi il decreto Sbloccaitalia in questo autunno hanno rilanciato lo sfruttamento di queste risorse.
Nei regimi concessori come da noi il petrolio appartiene allo Stato. Le sue riserve sono quindi una posta attiva nell’immaginario stato patrimoniale pubblico che però non viene redatto come tale. Quando queste riserve vengono consumate, la posta attiva si riduce e produce redditi privati, parte dei quali tornano allo Stato sotto forma di royalty e di tasse. In più sono da tenere conto le esternalità negative, cioè i danni ambientali o la rinucia ad altri usi del territorio.
Uno studio di Nomisma Energia del 2012 mostra che le royalty nei paesi OCSE dove sono applicate sono generalmente più alte che in Italia. Questo significa che il nostro Stato si riprende relativamente poco della rendita petrolifera. D’altra parte, perché la riduzione delle riserve di idrocarburi sia più sostenibile dal punto di vista economico occorre destinare le royalty a investimenti che aumentino il valore di altre parti di questo patrimonio, cosa che nel nostro ordinamento è stata recentementre prevista, ma con norme assai fumose e la cui attuazione è ancora tutta da verificare.
C’è un altro elemento a mio avviso che dovrebbe essere considerato dal decisore pubblico riguardo all’estrazione di idrocarburi: il loro prezzo. Se ricordo bene il Governo ha motivato il rinvio della vendita di un’ulteriore tranche di Eni ed Enel anche sulla base del prezzo oggi troppo basso delle azioni e, implicitamente, con l’aspettativa che crescano in futuro. Se applichiamo lo stesso ragionamento al petrolio, visto il crollo recente e la ragionevole aspettativa che esso comporterà una riduzione delle riserve e quindi una successiva scarsità tale da rialzarne il prezzo, la cosa giusta da fare è rimandare l’estrazione.
Tra le zone d’Italia interessate da intensificazione della ricerca e della coltivazione di idrocarburi c’è la Sicilia, dove la Regione ha siglato recentemente due protocolli d’intesa collegati tra loro: uno insieme al Ministero dello Sviluppo Economico con Eni sulla conversione con salvaguardia occupazionale della raffineria di Gela ad attività diverse dalla raffinazione petrolifera, un altro con Assomineraria (rappresentanza confindustriale di operatori dell’upstream petrolifero) sull’estrazione di idrocarburi in particolare nel canale di Sicilia.
L’accordo con Eni in sostanza dice che l’azienda, dopo aver perso troppi soldi con la raffinazione, un business falcidiato dal calo della domanda dei combustibili e l’eccesso di capacità produttiva, investirà a Gela in produzioni non più legate al petrolio bensì soprattutto a biocombustibili, loro logistica e logistica del gas naturale liquido, mentre quasi 400 esuberi della raffineria verranno ricollocati nel settore mineriario oil e gas, ma solo un quarto in Sicilia dove Eni prevede investimenti per aumentare a regime la media annua di produzione di gas naturale di 700 milioni di metri cubi e di petrolio di 1,2 milioni di barili per dieci anni, che significherebbe più che raddoppiare la produzione annua di gas siciliano e aumentare di poco più del 20% quella petrolifera rispetto al 2013. Il protocollo non cita peralto i danni ambientali dalle attività della raffineria accertati dallo studio epidemiologico Sentieri.
E in cambio cosa promette la Regione? S’impegna a svolgere in modo efficiente gli iter autorizzativi e a non aumentare le royalty, fermi i poteri di legislazione statale e regionale. Impegni in realtà un po’ deboli se presi alla lettera, visto che appunto non posso comprimere l’autonomia in materia del consiglio Regionale e del Governo, e forse dubbi in termini competitivi se si deve intendere che la Regione o il Governo garantiranno accesso eslcusivo alle attività minerarie ai firmatari.
Limitatamente all’accordo su Gela, invece, il do ut des con Eni è esplicito: Eni fa l’auspicabile conversione della raffineria (ma con meno occupati in essa) in cambio intensifica l’upstream nel canale di Sicila.
Contro gli accordi si sono espressi tra gli altri Legambiente e il Fatto Quotidiano, che con Maria Rita d’Orsogna ha mostrato l’inconsistenza di alcune dichiarazioni di Crocetta sulle sue attese stra-ottimistiche di introiti da royalty.
C’è legittima preoccupazione anche per l’incompatibilità tra valorizzazione del patrimonio ambientale anche ai fini di sviluppo del turismo e attività petrolifera. Io credo che l’incompatibilità per le attività a terra, in un territorio pregiato e fragile come quello italiano, sia quasi sempre innegabile, mentre la coltivazione di idrocarburi off-shore, per esempio in Adriatico, non ha impedito lo sviluppo turistico della riviera romagnola, dalla quale è quasi sempre possibile vedere piattaforme al largo.
Certo c’è anche in mare la questione sicurezza, che si lega alla capacità dello Stato di controllare il rispetto delle regole e di investire nella capacità per fare questi controlli.
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