di Fabio Cantarella, iena antimafia
La lotta più importante contro la mafia e la criminalità organizzata si conduce nelle scuole e tra le nuove generazioni che gradualmente andranno a costituire l’ossatura delle future società. La cosa che più teme l’organizzazione mafiosa, almeno le menti lucide che alimentano il fenomeno, è che lo Stato possa raggiungere ogni parte del territorio e sostituire la cultura mafiosa con i valori della legalità e della giustizia istituzionale. Un’attività importante quanto quella repressiva, forse più, un aspetto sul quale hanno dimostrato di puntare, sin dall’inizio, il procuratore capo di Catania, Giovanni Salvi, e il procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita (nella foto in una libreria catanese nel corso della presentazione del libro di Sebastiano Ardita, “Ricatto allo Stato”). La “partita” più importante si gioca nelle istituzioni scolastiche come nei luoghi di aggregazione giovanile o in quelli in cui fino a qualche istante prima si avvertiva l’assenza dello Stato.
Gli uomini guida delle procure, impegnati quotidianamente nei tribunali per garantire il rispetto di quelle regole che mantengono in vita lo Stato, possono svolgere un ruolo nel contrasto alla criminalità, altrettanto efficace e complementare al primo, stando a contatto con gli studenti, recandosi nei luoghi a rischio, presenziando, come ha recentemente fatto il dottore Giovanni Salvi, alla consegna alla parte sana della società di un terreno confiscato alla mafia. Una presenza simbolica che spesso vale più di un processo perché agli occhi delle nuove generazioni o di chi tende a rassegnarsi, si riafferma il principio che lo Stato c’è e i suoi uomini più esposti lo testimoniano con la loro presenza. Alla fine, la consegna alla società civile di un immobile confiscato alla mafia non è altro che l’ultimo tassello di un puzzle iniziato da un investigatore che ha individuato l’acquisizione di un bene con proventi illeciti, l’ha sequestrato, chiesto la confisca e messo davanti alle proprie responsabilità il proprietario.
Certamente il recarsi all’esterno tra gli studenti o nei luoghi simbolo della lotta alla criminalità, non sono attività che rientrano nei doveri professionali di un magistrati. E’ una questione morale: chi lo fa è perché porta avanti la battaglia all’illegalità con tutto sé stesso, perché svolge il proprio lavoro con passione ed ha la lungimiranza di comprendere che alla lunga stare in mezzo ai giovani può anche significare qualche processo penale in meno in futuro; o il successone di aver sottratto dei ragazzi al morboso interesse delle cosche, che tanto hanno bisogno di “facce nuove” per portare avanti i loro sporchi interessi, consegnandoli ad una vita degna di tale nome. Un’attività quindi strategica in una terra, come la Sicilia, che vede il proprio sviluppo frenato dai tentacoli di ‘cosa nostra’ (o meglio ‘cosa vostra’ prendendo in prestito le parole del professore Nicolò Mannino presidente del Centro studi “Parlamento della Legalità”) e molte vite distrutte spesso per l’assenza di quello Stato che dovrebbe tutelarle. A Catania, con la nomina di Giovanni Salvi a capo della Procura etnea, ma anche con il rientro in Sicilia di Sebastiano Ardita, si respira aria di riscatto, a tanti è tornata la voglia di battersi e questo lo si deve soprattutto al fatto che i due magistrati quotidianamente danno un contributo importante anche nel campo dell’affermazione della cultura della legalità.
Solo qualche giorno addietro, Giovanni Salvi e Sebastiano Ardita, autore dell’interessantissimo libro “Ricatto allo Stato”, hanno per esempio celebrato il trentesimo anniversario dalla morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, stando in mezzo agli studenti della Scuola media “Cavour” di Catania. “Ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per potere continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli” -diceva Carlo Alberto dalla Chiesa. E questa frase, attuale come non mai, rende il senso dell’impegno esterno degli uomini delle istituzioni.
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