Catania, corsa a sindaco: la Guerra dei Roses

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Torna inquietante e irridente come sempre la nostra Iena Ridens. E che dice….sentiamo, sentiamo….di Iena Ridens

“A squagghiata da nivi, si vistiru i purtusa”. La sapienza popolare siciliana, come spesso capita, fornisce il miglior epitaffio possibile per la storia della sinistra catanese. Così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi venticinque anni, è finita. Sepolta sotto lo scambio incrociato di accuse degli ultimi giorni, sullo sfondo delle imminenti elezioni amministrative. La goccia che ha fatto traboccare un vaso colmo di dissapori accumulatisi nel tempo, sedimentatisi nella memoria condivisa di anni ruggenti vissuti da padroni della città, clan politici e spesso familiari che hanno fatto e disfatto partendo da un unico dato certo: se stessi, e l’intangibilità del loro posizionamento al vertice. Così, gli altri, vivevano solo della luce riflessa che una delle fazioni riteneva giusto, ad un certo punto, puntare su qualcuno, scelto per fedeltà, vicinanza parentale, o altro. Come certe nature morte del pittore contemporaneo Antonio Nunziante, illuminate dalla luce di un neon che, su tela, ne rende una luminosità innaturale. Artefatta.

Sembra la Guerra dei Roses, perché i combattenti l’un contro l’altro armati, sono stati, per lungo tempo, parti di un’unica grande famiglia. Quella che cominciò a delinearsi con la prima sindacatura Bianco, nel lontano 1988, per poi cristallizzarsi nel fermo immagine della maggioranza che portò Bianco, nuovamente, a Palazzo degli Elefanti, nel 1993: il rampante politico repubblicano, l’avvocato catanese di grido, Andrea Scuderi, il dirigente politico di lungo corso, Adriana Laudani, il ponte con il mondo universitario, il compianto Paolo Berretta, il farmacista esponente della società civile, il compianto Antonio Guarnaccia. Con Anna Finocchiaro a vegliare dall’alto, ispirare, mediare, unire e, dove necessario, coprire. E via scendendo tra comprimari e protagonisti della meglio gioventù catanese dell’epoca, i rampanti Fabio Pagliara, Paolo Magnano, Harald Bonura, Antonio Schilirò, Lidia Rizzo, i tecnici prestati alla politica direttamente dai migliori salotti catanesi, per inseguire il sogno della Primavera. Che arrivò pure, ad un certo punto: gli anni ’90, per chi li ha vissuti, sono stati qualcosa di memorabile, immortalati da quella prima pagina di Famiglia Cristiana “Catania, la città dove anche i notai ascoltano i Fugazi”, consacrazione di un’estetica d’avanguardia e, per la prima volta, popolare. Un sentimento di orgoglio nella catanesità, presente in ciascuno. E sarebbe stupido, ancor prima che sbagliato, negarlo per farne critica a Bianco.Ma com’è, allora, che dopo vent’anni si arriva alla situazione che Giuseppe, il figlio di Paolo, indiscutibilmente il braccio, e qualcosa in più, pensante di Bianco sindaco, arrivi al redde rationem? Il peccato originale è nell’abbandono del 1999, quando Bianco va al Viminale e lascia la città senza aver preparato la successione. Si sceglie il professore Libertini, stimato docente sconosciuto ai più superati i confini del centro cittadino (mentre il centrodestra sguinzagliava i segugi nelle periferie, costruendo quel consenso che avrebbe portato Scapagnini ad affacciarsi dal balcone del Palazzo di Città in un uggioso lunedì pomeriggio dell’aprile 2000). Doveva essere altra, la scelta? Forse proprio quel Paolo Berretta che rappresentava la continuità, l’esperienza, forse anche (malizia del redattore), l’unica personalità così forte da fare ombra a Bianco?Comincia tutto lì? Nessuno lo confermerà mai, e del resto non è dovuta, la conferma. E’ solo una ipotesi. Ma nel match che Bianco e Berretta figlio hanno innescato, qualcosa che non torna c’è. Troppo diverse le storie dei due, per potersi comprendere. Tra chi si considera sindaco per grazia ricevuta, per mandato divino (la critica che Berretta fa a Bianco) e chi occupa la posizione che occupa per meriti “familiari” più che per il consenso personale (quanto, in termini, sempre più espliciti, filtra dall’ambiente di Bianco su Berretta) e dunque farebbe bene ad accontentarsi del tanto che già ha, il destino è non capirsi. Un primo passo sarebbe guardarsi allo specchio, e magari cominciare a pensare che un qualche fondamento, in quello che l’uno pensa dell’altro, c’è.Ma non lo faranno. Berretta chiede le primarie perché sa che non potrà ottenerle. Così, avrà un argomento per attaccare la supponenza di Bianco senza la necessità di passare per il tribunale del consenso. Bianco andrà avanti per la sua strada, con i comitati dei cittadini per Bianco, casa Catania per Bianco, gli appelli degli intellettuali per Bianco, il concerto degli artisti per Bianco, ripetendo in tutto il cliché della magnifica e perdente campagna elettorale del 2005.Un consiglio: mentre noi tutti si attende il prossimo sindaco (viste le premesse sarà la peone grillina o l’esponente del centrodestra ancora da scegliere), Bianco, Berretta, telefonatevi. Se solo pensaste a quanto poco interessino alla città le vostre beghe, avreste una vaga idea dell’infinito.

 

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Redazione Iene Siciliane

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