di Marco Iacona.
A un anno dall’inchiesta della Procura di Catania sull’università (“bandita”), il sindaco, adesso sindaco-sospeso, viene condannato in primo grado per fatti che riguardano anticipi di rimborsi (non entro nel merito), e l’ex sindaco, il leggendario Bianco, ha il suo bel da fare con la Corte dei conti regionale. I due sindaci provengono da idioculture opposte. Ma l’una non ha più nulla da dire, l’altra è un’incognita che si muove tra la boria e l’autocelebrazione. La città è fallita economicamente, culturalmente è allo zero, potendo contare su un imballo di scrittorucoli della domenica, innamorati di se stessi e dell’immagine che i giganti (ma erano davvero tutti giganti?) di un secolo fa hanno lasciato di uno spazio vivo, seducente ma qui e lì piagato.
Con un certo ordine, ma in casi come questi tenere un passo alla Sartre – mi riferisco al “peripatetico” Roquentin – è forse la strategia migliore, con quel constatare momento per momento le condizioni del reale rapportandolo a una mai sopita voglia d’“assoluto” (lasciatemi sognare, insomma).
Lo sport praticamente non esiste più, se non in realtà minori dove la buona volontà e la passione suppliscono alle diffuse carenze organizzative. La squadra di calcio è stata appena acciuffata per i capelli dopo anni di tribolazioni, scandali e scandaletti. E adesso? Lo spettacolo è in crisi nera, scende in piazza a vendersi. Gli artisti non lavorano più (causa covid19, solo a causa di quello?); da frequentatore dei teatri potrei raccontarne di cose, ma in momenti di estrema difficoltà bisogna solo augurare a tutti – senza escludere alcun lavoratore – un futuro migliore. Anche qui, usciti dal coma si vedrà, non sono ottimista e naturalmente ho le mie ragioni.
La memoria di lungo periodo dell’evento degli eventi (la festa della santa patrona) è appena scomparsa; a Maina si doveva molto, non vorrei che fosse la diana, anche qui, di una crisi che, in realtà è iniziata anni fa: la festa non è più momento di fede (per chi ce l’ha la fede), ma esibizione di gigantismo culturale in senso lato. L’occasione delle occasioni per vendere la città al mondo e raccogliere consensi comunque strappati, anche a costo di portare a spasso vergogne e brutture. La cittadinanza è fibrillante. Il centro storico pullula di delinquenti, spacciatori ed altro, e c’è pure chi li difende, mandando in giro comunicati nei quali, come sempre, si fa riferimento a una distribuzione di diritti da paese delle meraviglie. Se tutti avessero tutto, se non esistessero paesi, religioni, frontiere, fighe belle e fighe brutte: tutte chiacchiere degne del peggior Lennon.
La parte migliore della città non ne può più, ha studiato, lottato, si è formata per dare dignità a sé, alla propria famiglia e alla comunità e si vede erodere giorno dopo giorno spazi di libertà. Gli intellettuali (in prevalenza chic) tacciono: devono proprio a certe puttanate ultralibertarie la propria fama tramutatasi, nel giro di una stagione, in uno stipendio dignitoso e in un caffè non pagato in un bar sopravvivente. La restante parte dello zoccolo duro della sinistra d’opinione, quella che ingolfa le scuole, adesso in mano a una pentastellata confusa e confusionaria, legge e scribacchia, smadonnando contro il maschilismo, coglionando se stessa. Vede razzisti dappertutto e fa sogni ignoranti, godendo oramai di pochi grammi di credibilità. Il turismo, ammazzato dal covid19, è direttamente proporzionale alla capacità dei cosiddetti addetti ai lavori di vendere la città sui mercati della globalizzazione.
Temporalmente, Catania – quella degli ultimi decenni – la puoi dividere in due periodi essenziali. Prima del boom economico quando “due città” convivevano in uno spazio molto modesto: ampissime sacche di povertà e ignoranza da una parte, un notabilato con referenze “continentali” dall’altro (oramai in dirittura d’arrivo). Dopo il boom, il crollo. Si è chiesto troppo a luoghi che non potevano dare più di quel che hanno dato, la mafia da entità di “tradizione” si è trasformata in soggetto economico primario, la borghesia rimasta – commercianti, piccoli professionisti – ha partorito figli inadatti alla guida della città. L’antica aristocrazia fa ridere, vuoi perché “comunista”, vuoi perché del tutto avulsa da attinenze “teleologiche”.
Il proletariato come massa di manovra e come nuova “coscienza” non è mai esistito. Una massa inquietante di finti poveri, del centro storico e importata dai paesi, ha costituito e costituisce tuttora il blocco sociale, pressoché unico, col quale fare i conti. Corteggiata da una destra clientelare, snobbata da una sinistra che non ha mai preso in considerazione (ufficialmente) certe pratiche arricchenti. Il resto, poco, è robaccia: sottoumanità che piace alla sinistra perché niente affatto concorrenziale. Il giornalismo se non chiacchiera, operazione dannosa per orecchie intelligenti, è mera propaganda, per sé e per gli altri. I “cronisti” di casa nostra spendono il loro tempo a magnificare uomini e cose con senso critico pari a zero, contravvenendo a qualunque regola di buon senso e di estetica infantile.
Che io sappia nessuno ha mai scritto che il teatro greco-romano di via Vittorio Emanuele è poco più che una fogna a cielo aperto. Ma pazientemente attendo. Sui sindacati nulla dico (non sparo sulla croce rossa), la burocrazia più che da romanzo kafkiano è da bestseller kinghiano. Lascia sgomenti. Circa gli scrittori – sono costretto a ripetermi – posso affermare che trattasi di “pubblicitari” a buon mercato, innamorati di se stessi e dei loro umori, desiderosi di facile successo (qui il successo è piuttosto facile, per ragioni complicate, storiche, di schemi culturali e di mercato) tanto da calpestare le “regole” gramsciane, appositamente scritte per gli intellettuali. Coscienza critica contro il proprio tempo e i luoghi di appartenenza, questo bisognerebbe essere: solo così si cresce. Continuo a vagare alla Sartre, come un Sartre nauseato.
La Chiesa è una sorta di sindacato, perché oramai pensa solo a se stessa, laddove le associazioni “anema e core” sono tutte per gli africani. Società oramai è solo quella d’importazione; a bilanciare i poteri (si fa per dire) ci pensa una massoneria sempre più in competizione con se stessa, che cerca spazi tra le élite economiche e intellettuali, che vorrebbe (vorrebbe) gestire il gestibile. Ma insomma: chi cazzo comanda a Catania? Fino a un certo punto, avrebbe detto Claudio Fava ha comandato la mafia.
E adesso? Ogni “categoria” detiene una fetta di “potere”, tuttavia a parte pochi professionisti (ma pochi pochi), sono tutti in rapporto strettissimo con lo stato-mamma – mafia per prima – rappresentando i mille volti di una sorta di socialismo arraffante non egualitario, anzi; di un potere a somma variabile a piramide e livelli pressoché illimitati con sempre nuove “categorie” o gruppi in posizione subordinata o di privilegio. Un anarchismo cialtrone, caotico, in uno spazio “vuoto” volta a volta da colmare, che naturalmente pone a riparo dal caos i gruppi privilegiati. E così, qui, tutti hanno il loro momento di gloria (e di infamia). Senza un preciso perché e senza una ordinaria strategia, dai nigeriani ai massoni, dai dipendenti universitari ai bottegai, dai partiti politici alla mafia nostrana. C’è pure chi dice che, a Catania, comandino le femmine, oramai. In fin dei conti, direte, nulla di nuovo; non ci annoiamo, siamo “vivaci”, belli (risum teneatis amici), interessanti, attraenti. Già.
Ma siamo poveri, e poveri non solo economicamente ma anche, per ripassare dal “via”, intellettualmente. Perché il punto è questo: chi è che racconta la città? E che cosa racconta? E a quale pubblico si rivolge? E quale periodo racconta? E perché proprio “quel” periodo”? E dell’oggi cosa dice? E quali verità vengono fuori da questi racconti? Siamo stati all’avanguardia del socialismo, dicono, poi rivoltosi, poi sessantottini (ma andate a cagare, scemi), poi industriosi e lavoratori; abbiamo una grande tradizione nello spettacolo (certo: se ogni seratina è, per i “critici”, una nuova Traviata di Lisbona e se ogni vocalizzante è bravo come Aureliano Pertile, lo credo bene…), siamo “onesti” e generosi, disposti al sacrificio, politicamente abbiamo dato tanto: per la destra Catania era un fiore all’occhiello (ma l’avete capito quanto è ignorante, o no?), la sinistra ha fatto quasi sempre cilecca però si è affermata nelle università e altrove.
La Dc era soprattutto roba da meridione. E poi i nostri emigranti hanno fatto grande il mondo (un po’ come diceva Montanelli), ma sarà poi vero? Il peggio però deve ancora venire: avete visto i giovani? È dolorosissimo parlarne. Alcuni sono più vecchi dei vecchi ché indaffarati nelle vicende politiche e protagonisti come dei servetti volontari (da loro nulla di buono si otterrà), altri però dopo aver mantenuto i dipendenti pubblici della città, hanno orientato lo sguardo altrove.
A loro bisognerebbe rivolgersi come ultima generazione di illusi, e a loro bisognerebbe dare più strumenti perché, con maggior coraggio, si decidano a intraprendere il viaggio della “speranza”, quello verso la “vita”. Motivarli, formarli, istruirli, cioè “guarirli” da certo meridionalismo cialtrone. L’impresa allo stato delle cose, appare però disperata.
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