Cinema, Festival Venezia 2015: Caligari, fuori concorso, torna a parlare della periferia con un ultimo grande film


Pubblicato il 15 Settembre 2015

dalla nostra inviata Giulia Cosentino

Il regista romano Claudio Caligari scomparso qualche mese fa, nel suo ultimo film torna a parlare di Ostia e dei suoi giovani di periferia con un film ambientato nei recenti anni ’90.

Rispondendo a un’esigenza già pasoliniana di raccontare le storie degli emarginati della e dalla metropoli, Caligari si pone in netto contrasto con la tendenza contemporanea del nostro cinema nazionale, che anche alla mostra di Venezia concorre, tra gli altri, con due film su storie di una borghesia annoiata e silenziosa, immersa nella bellezza materiale di un mondo a colori vivi e ampi spazi puliti.

I protagonisti di “Non essere cattivo” sono due ragazzi Cesare e Vittorio, interpretati magistralmente da Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Due ragazzi che, come tanti altri, sconfiggono la noia e la mancanza di interessi rifugiandosi nel divertimento incontrollato che trovano in droga e alcol e nell’adrenalina dello spaccio. Due giovani che, come tanti altri, non hanno la forza di affrontare il mondo adulto che si offre loro solo con la sua precarietà lavorativa, senza prospettive di crescita e senza uno stato sociale. Emarginati da una società classista, si confrontano con la loro borgata che insegna loro a essere “cattivi”, a rubare, spacciare, e sballarsi senza tregua, a fregare il prossimo, il più debole come il più potente. Un mondo, quello ristretto delle loro case, che risente della scia dell’eroina e dei giovani che sono stati prima di loro i protagonisti degli altri due titoli di Caligari Amore Tossico e Nella Notte.

Non è solo la necessità di denaro a spingere i due protagonisti a condurre una vita sregolata, ma è più un’attitudine alla vita, come se fregare il sistema che impone un lavoro sottopagato, un divertimento controllato, il dolore della perdita e della malattia, sia l’unico futuro immaginabile. A legare insieme le generazioni dei film precedenti e quella di Cesare e Vittorio, c’è la piccola nipote di Cesare, malata di aids, e orfana della madre morta per la stessa malattia. Un personaggio che si inserisce sinergicamente alla composizione di un universo reale e spoglio di sentimentalismi e di giudizi. Non essere cattivo, infatti, spicca proprio per la sua naturalità e al contempo presa di posizione attraverso uno sguardo vicinissimo alla storia, per mezzo di una regia sincera e non poco pretenziosa. Caligari utilizza il mezzo cinematografico con una consapevolezza nuova, che gli permette di scrivere un’immagine di bellezza diversa da quella a cui, ormai, siamo cinematograficamente costretti a riferirci. Gli attori bravi si confrontano con questa purezza e la storia si sviluppa tra i palazzi della città e il mare assolato.

Vittorio decide di cambiare, di sfidare i compagni e la propria incertezza, inizia una storia con una donna – importantissimo personaggio interpretato da Silvia D’Amico che testimonia l’altra possibilità di essere giovani e comunque felici in un mondo precario – lavora al cantiere con gli immigrati polacchi e si allontana faticosamente dalla vita di strada e dall’amico fraterno Cesare.

La divisione tra i due, però, e ancora il film in questo riesce nel suo intento di non essere sentimentale, non li separa, non accantona le loro storie. Per quanto si muovano contemporaneamente in due direzioni opposte, uno verso l’uscita dalla strada della rovina, l’altro verso il baratro della stessa, i due continuano a volersi bene, a sostenersi, a realizzarsi grazie a un rapporto conflittuale che permette a entrambi di raggiungere il proprio fine. Valerio Mastandrea, che ha prodotto il film e lo ha sostenuto con molto impegno, dice a proposito che si tratta di una storia di amicizia. A mio avviso l’amicizia va contestualizzata in un’esigenza comune, in un disagio mai pietoso, in una lotta ancora aperta, che lega le loro storie, come quelle di tanti altri, all’ambiente e ai margini della metropoli. La borgata che include in dinamiche delimitate e delimitanti, che non permette di guardare fuori, alla vita, alla società come se l’unica via percorribile sia quella tra la casa e il baretto.

Come i ragazzi raccontati da Pasolini, anche i protagonisti del film si muovono e crescono in un contesto reale, che il cinema poche volte riesce a restituire senza essere patetico.

E fa riflettere, ancora, come il film italiano, sia rimasto fuori concorso, ancora fuori da un sistema italiano che con i suoi maggiori esponenti continua a raccontare voyeurismi eccellenti, senza però riuscire ad arrivare al personale e quindi al politico.

Giulia Cosentino

Venezia 72.


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