“Cosa Nostra Spa”: una serata catanese fra impegno e testimonianza


Pubblicato il 30 Luglio 2020

di Rosario Sorace.
Un dibattito di alto profilo e di notevole interesse, irripetibile e unico, quello che si è svolto a Catania tra tre grandi magistrati ,Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, Consiglieri togati del Csm e Nicola Gratteri, Procuratore Capo di Catanzaro e che ha visto la presenza anche di Nicola Morra Presidente della Commissione Parlamentare antimafia.

L’occasione è stata la presentazione del libro di Ardita, Cosa Nostra S.p.a., che il magistrato non aveva potuto presentare in questi mesi passati a causa della sospensione di tutte le iniziative pubbliche. La partecipazione a Palazzo Platamone è stata massiccia e molti sono rimasti fuori dal cortile per le rigidi restrizioni del distanziamento sociale. Un pubblico attento e caloroso che ha seguito questo qualificato dibattito a più voci in cui si è discusso della lotta alla mafia ma anche dei problemi legati al caso Palamara e alla necessità di ripristinare la fiducia nei confronti del Csm e dell’ordine giudiziario colpiti da un discredito inaccettabile e preoccupante. Il tono degli interventi è stato chiaro e determinato ma al tempo stesso bisogna riconoscere che le parole e il linguaggio usato da questi valenti magistrati è stato assolutamente antiretorico, all’insegna della sobrietà e dell’essenzialità. Sono stati letti alcuni passi del libro di Ardita che sono stati commentati dai giudici presenti.

Ad aprire l’evento, dunque, è stato il direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni che, insieme al collega Salvo La Rosa, ha presentato gli ospiti dicendo che “Cosa nostra s.p.a.” è un libro che consiglio a tutti, soprattutto ai più giovani perché è lo specchio della mafia oggi a Catania e in Sicilia. Ma il libro – ha detto – rappresenta soprattutto il quadro generale della situazione odierna della criminalità organizzata in Italia. Non a caso infatti oggi a parlarcene qui sono Nino Di Matteo, Nicola Gratteri e Sebastiano Ardita. Questi personaggi presentano, ognuno secondo le proprie indagini condotte, il proprio punto di vista.”Ha poi iniziato il giornalista Saverio Lodato con un saluto in video in cui ha definito questo incontro a Catania “eccezionale” e poi ha parlato Gratteri che è entrato subito nel merito esaminando l’opera di Ardita :“In questo libro c’è il centro del problema dell’Italia e dell’Europa in quanto Ardita spiega molto bene e analizza la mafia che non spara, che non fa danneggiamenti, non terrorizza.

Spiega l’attualità di una mafia che corrompe. Oggi c’è un abbattimento dell’etica, non si arrossisce più e non c’è più vergogna. Gli ultimi 20-30 anni sono stati catastrofici sul piano etico. Non ci si scandalizza più di nulla e si vive l’assuefazione. Oggi c’è la cultura del consumismo, dell’apparire anziché dell’essere, mentre prima la cultura era un valore. Oggi il valore è avere un Suv da 80mila euro fuori questa strada. Oggi si è accettati se si è vestiti firmati o se si va alla settimana bianca. Ed oggi c’è una fetta di classe dirigente/impiegatizia che non intende rinunciare a tutto questo e quindi è disposta a farsi corrompere. Spesso la gestione della cosa pubblica non è fatta funzionare non tanto per la farraginosità del sistema, ma molte volte sono i funzionari che non la fanno funzionare. Perché la pratica si sblocca subito dopo una mazzetta”.

Secondo il magistrato il libro “affronta molto bene la parte che riguarda il concorso esterno in associazione mafiosa. Ardita pensa ad un Daspo per coloro cui si trovano elementi ma non sufficienti sul piano penale. E’ come una misura di prevenzione quando non si riesce a condannare al 416bis. E questo è un punto focale”. Ha anche ricordato le difficoltà che ha incontrato quando è arrivato a Catanzaro nel momento in cui “se tu indaghi sui soliti noti tutti dicono che sei un bravo magistrato, ma non appena alzi il tiro esce un verminaio. Io ricordo che quando sono arrivato a Catanzaro ho passato due anni solo a organizzare l’ufficio e capire le indagini che erano ferme. Agli intervenuti pubblici c’erano 1000 persone e mano mano che passavano gli anni vedevo sempre più persone offese, vessate e sempre meno classe dirigente e borghesia. Questo perché abbiamo alzato il tiro”.

Gratteri si è soffermato sul fatto che a lungo le province di Catanzaro e Cosenza, Vibo Valentia, Crotone fossero ritenute “un’isola felice”. Poi, invece, “in pochi anni c’è stato un boom di Comuni sciolti per mafia, non ci sono elezioni in cui non sentiamo qualche politico, ascoltato con intercettazioni telefoniche e ambientali, chiedere pacchetti di voti o che monitoriamo mentre va ad incontrare mafiosi, sapendo di andare ad incontrare mafiosi. E a questo punto, come diceva Saverio Lodato, iniziano i giornali specializzati nel tentare di demolire tutto sul piano psicologico. Ma io ho spalle larghe e nervi d’acciaio e non faccio mai falli di reazione”.Poi l’intervento tanto atteso del giudice Nino Di Matteo che ha portato avanti con coraggio l’indagine sulla trattativa Stato/mafia rischiando la vita: “Nel momento in cui sentivo parlare Saverio Lodato sulla magistratura mi è venuta in mente questa annotazione. Io, dato il mio ruolo, non entrerò nei particolari e nelle singole responsabilità, ma non posso stare zitto. Sono un magistrato e non posso non affrontare il momento particolare della magistratura.

Di fronte a quanto accaduto con l’inchiesta di Perugia non possiamo essere sorpresi, ma dobbiamo indignarci e reagire. Senza aspettare che altri reagiscano per conto nostro. Noi dobbiamo reagire contro quei fenomeni che hanno provocato quella degenerazione: il correntismo, la diffusione dei metodi clientelari; il collateralismo di molti magistrati con la politica; la corsa sfrenata, stupida e ridicola per ottenere incarichi direttivi; la gerarchizzazione degli uffici procura. Oggi dobbiamo batterci a maggior ragione perché sappiamo che una parte consistente della politica, e del potere in generale, vuole cogliere l’occasione con riforme che apparentemente sono fatte per evitare certe degenerazioni, ma in realtà mirano a ledere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, al servizio dei cittadini, per renderla collaterale al potere politico ed esecutivo in particolare”. E’ questo l’appello lanciato a tutta la magistratura da parte del magistrato Nino Di Matteo, parlando anche della prossima riforma del Csm.

Quindi ha fatto anche delle proposte: “E’ necessaria una riforma elettorale del Csm che spezzi il vincolo degli eletti con le correnti. In questa direzione, a mio avviso, possiamo anche pensare ad una forma di sorteggio temperato dei candidabili al Consiglio superiore della magistratura. Penso, più continuamente e senza dubbi, ad una rotazione automatica degli incarichi direttivi. La bellezza di fare il magistrato sta nel fare inchieste, processi e cercare verità e non nel diventare Procuratore capo, Procuratore generale o Presidente della Corte d’appello. La corsa alla carriera è pericolosa in relazione al sacro principio dell’articolo 107 della Costituzione che sancisce che i magistrati si distinguono tra loro solo per funzioni, sappiamo, obbediscono soltanto alla legge”. Di Matteo ha rievocato il suo passato : “Io, come Sebastiano, sono entrato in magistratura poco prima delle stragi. Da tirocinante ho vissuto a Palermo il periodo delle stragi.

Ho indossato per la prima volta la toga che avevo appena comprato in piena notte, alle tre di notte, al palazzo di giustizia a Palermo accanto alla bara di Giovanni Falcone. Mi batterò con tutte le mie forze perché chi, non solo nella magistratura, occupa indegnamente le istituzioni, non sporchi la memoria di chi è morto per il nostro Paese e per le istituzioni che quelle persone servivano nell’interesse dei cittadini e del popolo italiano.Da pochi giorni è trascorso l’ennesimo anniversario, il 28esimo, della strage di via d’Amelio. E non è vero che non sappiamo nulla o che gli sforzi giudiziari sono stati tutti inutili. Dopo gli iniziali depistaggi ed errori già dal 1996 le indagini dei processi hanno consentito di accertare passaggi importanti e non solo le condanne definitive e mai messe in discussione di 24 tra esecutori e mandanti, ma qualcosa di più importante: l’acquisizione di elementi concreti che oggi ci possono far dire che quella di via d’Amelio non è stata solo una strage di mafia. Ed è necessario proseguire il percorso di accertamento della verità senza azzerare tutto, ma partendo dalle acquisizioni consacrate correttamente per colmare i vuoti di verità”.

Oggi Di Matteo è giudica togato del Csm ma è anche una memoria vivente della lotta alla mafia e ha raccolto l’eredità di Falcone e Borsellino.”E’ necessario muoversi in due direzioni – ha proseguito – capire il perché di un’improvvisa accelerazione del progetto di uccidere il dottor Borsellino che intervenne tra la metà di giugno del 1992 ed i primi di luglio del 1992. E poi sforzarci, come sempre, di cercare di inquadrare quell’attentato in un contesto più ampio di sette stragi, avvenute tra il 1992 ed il 1994, che insanguinarono l’Italia. Noi abbiamo capito perché i corleonesi intrapresero quella strategia: si muovevano politicamente e ritenevano saltati quei vecchi equilibri politici fotografati anche nella sentenza Andreotti.

Il programma politico di Riina era ‘dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace’. Dobbiamo mettere in condizioni lo Stato a venirci a cercare per arginare la violenza stragista. Noi abbiamo capito il perché furono fatte le stragi. Dobbiamo capire meglio perché nel gennaio 1994 interruppero quella strategia. Si poteva ripetere il fallito attentato all’Olimpico la domenica successiva. Non lo fecero. Certo è che al di là delle responsabilità penali individuali accertate in primo grado, di cui non voglio parlare in attesa e in costanza di processi in corso, un dato è certo. Che mentre Paolo Borsellino e gli agenti della scorta andavano incontro alla morte una parte dello Stato, per il tramite di Vito Ciancimino, si rivolse a Riina per chiedere cosa volesse per abbandonare le stragi. E ci fu una ricerca di un dialogo e un patto oscuro e osceno che di fatto non evitò altro sangue, anzi lo provocò perché rafforzò negli stragisti il convincimento che la strategia era giusta e li indusse ad organizzare altre stragi”. E poi ancora ha ricordato: “Uno degli stragisti, in una villetta di Santa Flavia, vicino a Palermo, spiegò quali fossero gli obiettivi da colpire. Ammesso che sia solo farina del sacco di Cosa nostra individuare i monumenti, San Giorgio al Velabro, San Giovanni in Laterano, o la Galleria degli Uffizi. E questo per dire qual è il ruolo di Matteo Messina Denaro nelle stragi. Non solo un esecutore, ma un organizzatore”.
“E’ grave che la latitanza di Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo per questi fatti, si protragga da 27 anni. Così come per 43 anni si protrasse la latitanza di Provenzano. Situazioni di questo genere non possono non essere anche, in parte, il frutto di coperture istituzionali e politiche. Non è normale che per 27 anni, o 43 anni, non si catturi un latitante. E per Messina Denaro la gravità è acuita dal fatto che è stato uno dei protagonisti della campagna stragista. Questo lo pone in condizioni, potenzialmente perché è uno dei pochi depositari di segreti inconfessabili, di brandire un’arma micidiale di ricatto nei confronti di chi ha ancora molto da nascondere su quella fase di storia recente.Quando si scrive che lo Stato ha vinto e Cosa nostra è stata sconfitta, quando si dice e si scrive con assoluta certezza che la parentesi stragista è stata solo una parentesi limitata che non si ripeterà mai più io penso che queste persone, questi studiosi, questi storici, forse si accostano con superficialità al problema.

Perché in Cosa nostra si sono alternati nel tempo momenti di sostanziale ed apparente pace con lo Stato seguito da momenti di attacco allo Stato. Come si può dire che si è abbandonata la strategia di attacco alle istituzioni nel momento in cui nel 2013, un collaboratore di giustizia come Vito Galatolo, ritenuto attendibile non solo dalle Procure ma anche da sentenze, ha raccontato, con tanto di riscontri, dell’acquisto di tritolo per colpire un magistrato a Palermo. E questo lo dico per porre il problema della non scontata fine del periodo di violento attacco alle istituzioni”. Mette tutti sull’avviso Di Matteo lanciando un vigoroso grido d’allarme e il consigliere togato del Csm afferma con sicurezza di circostanze e fatti. “In carcere ci sono uomini protagonisti della strategia stragista, ancora giovani, che a mio parere difficilmente si rassegneranno a morire al 41 bis, rassegnati ad essere traditi da chi gli aveva prospettato che quella strategia stragista poteva portare benefici a tutta Cosa nostra. Non è in carcere un altro di quei soggetti che quella strategia stragista hanno condiviso e vissuto come Matteo Messina Denaro. Per questo a giudizi sommari e silenzi dobbiamo contrapporre la memoria, il dibattito, le parole, il coraggio di esporsi in prima persona”.
“Cosa nostra – ha proseguito – è l’unica organizzazione al mondo che è riuscita a concepire stragi, centinaia di omicidi eccellenti tra magistrati uomini delle forze dell’ordine, politici, sindacalisti, prefetti e giornalisti. Questo perché Cosa nostra è quell’organizzazione che più di altra ha avuto come faro l’intendimento e la capacità di intessere rapporti con la politica e le istituzioni”. Di Matteo ha ,dunque, ricordato le sentenze come quella Andreotti, quella Dell’Utri, quella Cuffaro, e la sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia.

“Non ci si può concentrare solo sui fenomeni militari mafiosi – ha detto – Il libro di Sebastiano Ardita ci parla di questo. Ci spiega come sia falsa e rassicurante e ipocrita e ingiusta la tendenza a considerare la mafia solo ciò che parte dalla disperazione e la miseria degli ultimi della società. Da pochi giorni è trascorso l’ennesimo anniversario, il 28° della strage di via d’Amelio. E non è vero che non sappiamo nulla o che gli sforzi giudiziari sono stati tutti inutili. Dopo gli iniziali depistaggi ed errori già dal 1996 le indagini dei processi hanno consentito di accertare passaggi importanti… Quella di via D’Amelio non è stata solo una strage di mafia. Ed è necessario proseguire il percorso di accertamento della verità senza azzerare tutto, ma partendo dalle acquisizioni consacrate correttamente, colmare i vuoti di verità”. Ha aggiunto il consigliere del CSM Nino Di Matteo.

Poi Di Matteo ha detto una cosa che storicamente è avvenuta e che potrebbe ancora accadere : “Quando si scrive che lo Stato ha vinto e Cosa nostra è stata sconfitta, quando si dice e si scrive con assoluta certezza che la parentesi stragista è stata solo una parentesi limitata che non si ripeterà mai più, io penso che queste persone, questi studiosi, questi storici, forse si accostano con superficialità al problema. Perché in Cosa nostra si sono alternati nel tempo momenti di sostanziale ed apparente pace con lo Stato seguito da momenti di attacco allo Stato. Come si può dire che si è abbandonata la strategia di attacco alle istituzioni nel momento in cui nel 2013 – quindi non 20 anni fa – un collaboratore di giustizia come Vito Galatolo, ritenuto attendibile non solo dalle Procure ma anche da sentenze, ha raccontato, con tanto di riscontri, dell’acquisto di tritolo per colpire un magistrato a Palermo (cioè proprio Di Matteo, ndr) . E questo lo dico per porre il problema della non scontata fine del periodo di violento attacco alle istituzioni”.

Un momento toccante e emozionante per lui è stato quando ha evocato il suo ingresso in magistratura: “Io sono entrato in magistratura poco prima delle stragi. Da tirocinante  –ha concluso Di Matteo – ho vissuto a Palermo il periodo delle stragi. Ho indossato per la prima volta la toga che avevo appena comprato in piena notte, alle tre di notte, al palazzo di giustizia a Palermo accanto alla bara di Giovanni Falcone. Mi batterò con tutte le mie forze perché chi, non solo nella magistratura, occupa indegnamente le istituzioni, non sporchi la memoria di chi è morto per il nostro Paese e per le istituzioni che quelle persone servivano nell’interesse dei cittadini e del popolo italiano”. Morra è stato interrotto nel suo intervento perché qualcuno dal pubblico ha chiesto conto e ragione delle scarcerazioni dei mafiosi al 41 bis: “Io sono convinto che per combattere le mafie a partire da Cosa nostra, a partire da Nitto Santapaola o Giuseppe Calderone, si debba avere chiara la coscienza dei propri doveri oltre che dei propri diritti. Nella misura in cui cresce l’una deve crescere anche l’altra”, ha detto Morra.
“Oggi è più facile parlare di valore in riferimento al conto corrente in banca piuttosto che ideali che ci venivano impartiti da piccoli”. Il senatore ha poi riportato, durante il suo intervento, la vicenda della caserma di Piacenza che qualche giorno fa è stata chiusa perché alcuni militari dell’Arma si erano resi protagonisti di “reati gravissimi” (queste le parole del gip).
“Tutti abbiamo seguito una vicenda dolorosa che è quella dei carabinieri beccati a Piacenza con le mani nella marmellata. A me più che della narrazione ha fatto impressione ciò che veniva proposto da questi soggetti in termini di immagini con cui loro si proiettavano all’esterno, spesso e volentieri sui social dove si facevano ritrarre con mazzette di soldi, alcolici a bordo di una piscina come se la vita fosse questa”, ha affermato Morra rifacendosi al discorso di Nicola Gratteri sui valori e la moralità dell’individuo, e quindi della società. “Il nostro Paese – ha aggiunto – deve fare una rivoluzione culturale anzitutto leggendo, ma soprattutto meditando, ad esempio su quello che viene scritto in questo libro”. “Noi italiani dovremmo avere un po’ più di coraggio smettendo con l’ipocrisia che ci accompagna tutti i giorni. In queste settimane vengo raggiunto da foto scattate all’interno di beni sequestrati e confiscati gestiti da cooperative sociali in cui con il supporto del ministro dell’istruzione Azzolina, ci sono dei ragazzi che stanno facendo delle esperienze di educazione alla legalità e di condivisione. La partita – ha concluso – si vince sul versante dell’istruzione perché riflettere è anche un’azione antimafia. Quindi ben vengano libri come quello di Sebastiano Ardita che fanno bene al cuore e alla mente”.
Morra: ”Lotta alla mafia non è priorità nelle agende di tante forze politiche”
“L’azione di contrasto alle mafie non è il primo punto dell’agenda di tante forze politiche”. Ha esordito così, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, alla presentazione del libro del magistrato Sebastiano Ardita “Cosa nostra S.p.A.” tuttora in corso a Palazzo Platamone di Catania. “E che non sia il primo punto, e forse neanche tra i primi tre  – ha detto Morra  – lo dimostrano tante scelte che hanno impedito l’azione di alcuni magistrati e forze di polizia giudiziaria di poter arrivare a meta”.
In questo libro “si tratteggia di una Cosa nostra che, in una maniera meno virulenta e sanguinaria, ha capito che la partita si vince rapportandosi al potere”. “E il potere  – ha spiegato  – soprattutto quando non è democraticamente fondato e imbullonato su valori condivisi, si fa tentare e sedurre. In tante di queste pagine si legge di centri commerciali costruiti come funghi perché con qualche variazione del piano regolatore generale si concede questa possibilità con l’avallo della classe dirigente. E dunque della politica. E tutto questo perché, come ho imparato studiando Rocco Chinnici, a fondamento della mafia c’è una straordinaria propensione all’accumulazione di capitali”. Pertanto, ha aggiunto il senatore, “credo che si debba tornare a categorie di lettura economicista di certi fenomeni per comprendere certe dinamiche. Le mafie hanno compreso che relazionandosi al potere della classe dirigente potevano ottenere ancora più forza. Le mafie attraverso l’esempio di Nitto Santapaola, relazionandosi alla Catania bene hanno fatto il salto di qualità, quindi abbiamo i cavalieri del lavoro, e quindi, come sbocco, giuridicamente parlando, il concorso esterno. Ovvero favorire il sodalizio senza mai risultare intraneo allo stesso. Noi  – ha concluso Morra  – dobbiamo prendere coscienza che troppe volte chi rappresenta lo Stato gioca contro lo Stato”.
Poi è toccato a Sebastiano Ardita che ha ringraziato tutti e in special modo i due prestigiosi colleghi spiegando le ragioni che lo indotto a scrivere questa riflessione su Cosa Nostra S.p.a.:
“Catania è l’epicentro narrativo di questo volumetto. Ho voluto raccontare questa città come era negli anni ’70 e ’80. Poi ad un certo punto ho raccontato fatti e fenomeni non solo di mafia, guerre di mafia ma anche guerre di politica, infiltrazioni, collusioni, disillusioni.Poi ho rappresentato la città nei tempi più recenti”, ha proseguito il magistrato, “lasciando che fosse il lettore a trarre le conclusioni di quelle che sono le differenze, valutando se, in queste differenze, quelle vicende di mafia narrate avessero avuto una parte”. Ardita ha analizzato in questo libro le differenze tra la Catania degli anni ’70, dove “i negozi erano tutti aperti, la gente andava per guardare, si fermavano le famiglie e l’incedere era molto lento e cadenzato”.

Mentre la Catania di oggi,appare bel diversa e dove le persone scendono sole per strada, “i negozi hanno le saracinesche abbassate o le vetrine sono abbandonate e individui che da soli passeggiano guardando il telefono e questa è una modifica importante nella vita di una città, è cambiato quello che è stato l’input principale dei catanesi: l’attività commerciale.Catania è una città nella quale si è spenta quella energia fondamentale dei catanesi che era il dire dei piccoli commerci, perché è accaduto – ha spiegato il consigliere togato del Csm – che in una decina di anni sono sorte un numero impressionante di strutture di iper mercato e molte attività economiche hanno chiuso”. Purtroppo, come viene raccontato anche nel suo stesso libro, a Catania “è avvenuta con violenza una diversa distribuzione della ricchezza e del lavoro e improvvisamente è cambiato tutto. Se non avessimo avuto la amara opportunità di verificare come questo cambiamento è avvenuto”, ha continuato Ardita, “se non avessimo letto gli atti giudiziari che hanno riguardato Cosa Nostra catanese che ci hanno spiegato come sono sorti gli ipermercati, con quanti ‘pasticci’ sono sorti, con che concorrenza tra mafiosi e imprenditori sono sorti, non avremmo mai capito quello che era accaduto a Catania”.
“Il tema fondamentale”, ha detto il magistrato, era che negli anni ’80 “c’è stato un atteggiamento di contenimento del fenomeno mafioso perché era sempre visto con atteggiamento ambivalente: da un lato era un fenomeno negativo perché legato alla criminalità e dall’altro era un fenomeno che qualcuno pensava di poter gestire per un interesse proprio. Perché la mafia era un potere in certi territori. Purtroppo la parabola di una mafia soltanto che spara è diventata negli ultimi tempi una brutta storia, che ha consentito diversi fenomeni di mutamento di questa realtà, all’interno anche della stessa Cosa nostra”, ha affermato Ardita. “Siccome sono stati fatti un sacco di soldi sporchi e le famiglie sono organizzate con delle strutture particolari, qualcuno ha pensato di poter tagliare il cordone ombelicale con la parte più militare della organizzazione, e di trasformare questa Cosa nostra in quello che può essere una Cosa nostra S.p.A, una realtà votata al reinvestimento, ai rapporti che contano”, ha proseguito.
“D’altra parte la mafia questo è: i rapporti tra la criminalità di élite e il potere. La criminalità, le attività illegali in tutte le realtà di territorio sono organizzate in reti, non tutte le reti sono mafiose, ma le reti convergono verso un vertice, la sintesi di questo vertice è la mafia: il soggetto che interloquisce con il potere. Credo che negli ultimi tempi l’aver voluto dipingere il fenomeno mafioso come un fenomeno che spara è servito a molti: a mettere in silenzio coloro i quali volevano andare a disvelare i rapporti più importanti, quelli che alimentano il fenomeno e che lo ledono al potere e dall’altra parte a lasciare in una condizione di limbo i quartieri nei quali si sono formate le squallide realtà che traggono spunto dal disagio e poi armano la Cosa nostra, in modo militare”.
“Quindi si possono arrestare 1, 2 o 100 di questi killer ma non si è combattuta la mafia”, ha chiarito il consigliere togato del Csm, “hai colpito un terminale di cui le reti criminali si servono ma che di per sé non è sufficiente per dire che si è vinta la battaglia contro la mafia. Dietro questa ipocrisia c’è molta storia, ci sono carriere, c’è un’antimafia di maniera, ci sono stati magistrati di antimafia buoni perché si sono occupati di catturare coloro che svolgono un’attività criminale e ce ne sono alcuni che sono considerati cattivi perché si occupano anche dei rapporti della mafia con il potere, che sono quelli più scomodi e che incidono su quelli che sono gli equilibri importanti e istituzionali”.

Sono magistrati “che fanno verità e cercano giustizia.Tutti i fenomeni criminali organizzati sono fatti di storie di persone e le storie di persone, comunità e società anche deviate sono soggette ai ricorsi storici”, ha continuato il magistrato, “tutti sappiamo che non esiste nulla di nuovo nella storia, ma solo la rielaborazione di fatti che sono già accaduti in modalità già realizzate. Dunque il pericolo è sempre presente”. Ardita ha ricordato infatti le dichiarazioni del pentito Galatolo, già prima menzionate da Nino Di Matteo, chiarendo che “l’esplosivo era già arrivato a Palermo ed era per Nino Di Matteo”. Ecco perché “ci siamo arrabbiati per le scarcerazioni dei mafiosi: non è che lo abbiamo fatto perché non ci piacciono certe scelte amministrative che avvengono nell’amministrazione penitenziaria, lo abbiamo fatto perché c’è un pericolo concreto di riorganizzazione militare di Cosa nostra. Tutto quello che si è determinato in termini di equilibrio tra Stato e mafia, rispetto a quelle che possono essere le forme di attacco allo Stato è un equilibrio che vive di variabili, ma se qualcuna di queste variabili salta, salta tutto, salta quell’equilibrio.

Ecco perché il rischio dei 250 mafiosi scarcerati è enorme se ci sono capi di famiglie mafiose anche su questo territorio che sono tornati fuori dal carcere. Bisogna tenere gli occhi aperti.” continuato a scrivere che a Catania la mafia non c’era e Cosa nostra ai piedi dell’Etna avrebbe comandato indisturbata e sconosciuta chissà per quanti anni ancora”.
“L’amarezza maggiore che abbiamo in questi anni è quello di avere visto accanto a forme importanti di impegno culturale contro la mafia intesa anche come rapporto con il potere anche un’antimafia che ha preteso di diventare essa stessa potere ed ha quindi contraddetto se stessa”, ha proseguito il consigliere togato del Csm.
“Questo modo di intendere l’antimafia oggi necessita di due elementi fondamentali. Un elemento di attenzione a quelle che sono le dimensioni reali del fenomeno: non c’è più tempo di proclami, affermazioni e pronunce di leggi che aggravano il 41bis, che aumentano pene per reati per poi cedere di fronte ad una banalità, ad una questione che riguarda una pandemia. Quando tutti i cittadini vengono costretti a casa e i detenuti al 41 bis vengono aperti e mandati in una zona rossa per essere curati. Queste sono le assurdità di un sistema che evidentemente sta cedendo dalle fondamenta, di un sistema che è eroso da una reazione strumentalmente garantista, ma non realmente garantista. Perché il garantismo è un’altra cosa: è il rispetto dei diritti, di civiltà della pena, fa parte dello stato di diritto.
Io credo che quando si affrontano questi fenomeni non si può avere un atteggiamento ipocrita e sprezzante e non si può considerare la mafia un fenomeno sordido, squallido relegato a certi nomi e a certe famiglie e soprattutto confinato dentro certi quartieri, perché la mafia che conosciamo noi, quella di Catania, è una mafia che si è alimentata nei rapporti con il potere e nell’incapacità delle istituzioni del mondo che conta di prendere coscienza di questo rapporto. Occorre invece avere una prospettiva diversa che manca a volte e che vedo sempre più spesso in questa città”.
“Io ho ancora speranza”, ha affermato poi il magistrato, “Catania è una città viva culturalmente, che ha capito che il problema non è l’emarginazione dei quartieri. Ha capito che per risolvere il problema bisogna entrare in questi quartieri, guardare questa gente e far capire che non esiste una città bene e una città emarginata che crea problemi, ma che c’è un mondo unico in cui c’è chi ha avuto la fortuna di crescere in una famiglia borghese e chi è vissuto in realtà emarginate in cui veniva alimentato il meccanismo mafioso.

L’obiettivo in questo momento”, ha chiarito in conclusione Ardita, “è quello di entrare in questi quartieri in modo diverso, con l’atteggiamento di chi vuole riscattarsi e superare quelle barriere, di chi vuole farsi carico di ragazzini cresciuti con il papà in carcere e che hanno solo voglia di riscatto e voglia di essere accuditi e ascoltati prima che diventino criminali dalla Catania bene”.
Su una domanda posta da Salvo La Rosa ha risposto Gratteri che ha poi parlato anche della crisi della magistratura spiegando che “la madre di tutte le riforme è quella del Csm “. “Io – ha aggiunto – sono d’accordo con il sorteggio. Escludendo chi ha avuto condanne e quelli che hanno ritardi nelle sentenze, si può dividere l’Italia per macro-aeree (Nord-centro-Sud) e poi si fa il sorteggio. Perché se sono in grado di scrivere una sentenza sono in grado di valutare se una persona è idonea a fare il Presidente del Tribunale o il Procuratore generale.

Se tolgo questo giocattolo delle nomine le correnti spariscono e la magistratura diventerà più indipendente e la gente si avvicinerà più a noi, perché la gente non è masochista, non è omertosa. La gente non si avvicina perché non si fida, non sa con chi parlare”. Già a margine della presentazione del libro, intervistato dai giornalisti, Gratteri ha spiegato che “non c’è un problema giustizia oggi ma da decenni. Non abbiamo ancora un legislatore che affronti il problema in modo radicale, avendo il coraggio di rileggere i codici per modificarli, per adeguarli alle esigenze del 2020″. “Ci provammo – ha aggiunto – in una commissione nel 2014 che aveva il compito di fare delle riforme di ‘superficie’. Ma nemmeno quelle passarono. Passò solo quella del processo a distanza, che consente un risparmio di 70 milioni di euro l’anno, limitando a zero il rischio di evasioni. Solo per questa riforma gli avvocati fecero cinque giorni di sciopero”.
Il procuratore capo di Catanzaro ha poi commentato gli arresti dei carabinieri della Caserma di Piacenza, avvenuto negli scorsi giorni. “Piacenza? Sono soltanto mele marce. Non c’è un problema reale. Da più di 30 anni lavoro con i carabinieri e ne ho conosciute diverse migliaia che danno l’anima e che hanno nel sangue il senso della giustizia – ha detto – La corruzione, i corrotti, gli infedeli e gli indegni sono in tutte le categorie. Questo non vuol dire buttare l’acqua sporca con tutto il bambino ma avere il coraggio di togliere in modo radicale queste mele marce per continuare ad aver fiducia perché non esiste alternativa”.
In conclusione, il magistrato ha spiegato che “nel medio e nel lungo periodo il Coronavirus ha rafforzato le organizzazioni criminali. Noi pensiamo agli imprenditori, commercianti e ristoratori che non sono riusciti ancora a riaprire o a lavorare a regime. Potrebbero essere tutti preda di usurai e dopo una lenta agonia sappiamo che il loro obiettivo è quello di rilevare l’attività commerciale e poi fare riciclaggio”. “La corruzione, i corrotti, gli infedeli e gli insegni sono in tutte le categorie. – ha concluso – Questo non vuol dire buttare l’acqua sporca con tutto il bambino ma avere il coraggio di togliere in modo radicale queste mele marce per continuare ad aver fiducia perché non esiste alternativa”. In buona sostanza un bel libro che affronta temi scottanti che sono stati ampiamente approfonditi e che dimostrano ancora una volta il sostegno dell’opinione pubblica a questi giudici schierati per l’affermazione della legalità e in prima linea nella lotta alla mafia.


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