Così lavorano i Lap dei call-center palermitani, il “nuovo caporalato” povero. La denuncia della Slc Cgil: “Lavoratori usati come polli nelle gabbie, sfruttati, mortificati. La Regione e il Comune intervengano per fermare questa nuova ondata di schiavitù”

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SLC CGIL PALERMO COMUNICATO STAMPA

Così lavorano i Lap dei call-center palermitani, il “nuovo caporalato” povero.  La denuncia alla conferenza stampa della Slc Cgil. “Lavoratori usati come polli nelle gabbie, sfruttati, mortificati. La Regione e il Comune intervengano per fermare questa nuova ondata di schiavitù. Alle aziende chiediamo un cambio di rotta”. 

Palermo 13 maggio 2019 –  “Stiamo assistendo a una nuova ondata di schiavitù, che coinvolge migliaia di lavoratori giovani ma anche tanti non più giovanissimi, impiegati come Lap, lavoratori a progetto, nei call center.  Per molti – dice il segretario generale  Slc Cgil Palermo Maurizio Rosso, che è intervenuto oggi alla conferenza stampa nella sede della Slc,  assieme all’avvocato del lavoro Pietro Vizzini e a diversi lavoratori, che hanno voluto portare la loro testimonianza – tutto  è iniziato 15 anni fa, si sono sposati e hanno messo su famiglia, illudendosi di poter avere un futuro. Lavorano 6 ore al giorno, in condizioni pessime, guadagnando una mancia  da 100, 200 o 300 euro al mese, svolgendo di fatto un lavoro subordinato mascherato, perché hanno un orario e seguono le direttive delle aziende. Ma  sono lasciati senza diritti e non sanno se a fine mese il contratto sarà rinnovato”.
      “Oggi – aggiunge Rosso – abbiamo ascoltato le voci di madri di famiglia di 40 anni  che non hanno diritto di assentarsi se il figlio sta male né diritto alla maternità,  alcuni hanno la 104 ma non viene rispettata, ci sono famiglie che devono far quadrare i conti tra la spesa e la scuola dei figli”. 
      Rosso ha spiegato come avviene il lavoro dei Lap, ai quali vengono consegnate liste di nomi, di possibili clienti, alcune redditive, con alte probabilità di vendere un abbonamento o un rinnovo, altre vuote, liste fantasma, che  inchiodano l’operatore ore e ore al telefono senza vendere nulla, come “polli nelle gabbie, con l’obiettivo di ingrassare e smerciare subito i prodotti al di là di ogni qualità o  utilità reale”.  E  da lì la parte  lotta tra gli operatori,  che cercano disperatamente di accaparrarsi le liste da chiamare più remunerative. Lavoratori pagati solo nel tempo effettivo del colloquio  con il cliente, attese tra una telefonata e un’altra non pagate, pause dopo ore stressanti di lavoro non pagate, tempi per comprendere come offrire una qualità migliore dei servizi venduti ai clienti non pagati. 
    “Bisogna vergognarsi – prosegue Maurizio Rosso – che  migliaia di ragazzi che cercano di lavorare  in una Sicilia impantanata nella mafia e nel deserto industriale, con una laurea in tasca,  debbano  essere  trattati alla stregua di schiavi.  E’ vergognoso pensare che uno possa portare avanti una famiglia elemosinando una lista di nomi più proficua e redditiva di un’altra, per cercare di guadagnare qualcosa di più al giorno  senza garanzie di rinnovo del contratto a fine mese  e senza diritti”. 
     Da qui l’appello alle istituzioni, per un cambio di rotta radicale che coinvolga le aziende e che veda impegnate le istituzioni in una “battaglia di civiltà”.  
  “Abbiamo sensibilizzato  l’amministrazione comunale su questa situazione e lo faremo anche con la Regione, che è  scomparsa: su  20 mila lavoratori siciliani dei call center,  ci sono  5 mila lavoratori a progetto (Lap) senza diritti. Le istituzioni devono farsi carico di questo fenomeno devastante, devono fare investimenti sulla formazione,  su attività innovative e progetti di crescita nel campo sei servizi,  per far sì che questo diventi un vero lavoro. Ogni anno dalla Sicilia vanno via 10 mila giovani. E’ impensabile continuare a vivere di disoccupazione, ignoranza e assenza di infrastrutture. Il Mezzogiorno sia il problema numero uno d’Italia, il suo sviluppo è necessario alla crescita del Paese. La  Sicilia è  piena di giovani brillanti che studiano e lavorano all’estero. La Regione siciliana e il governo devono comprendere che le aziende devono venire qui e devono investire”.

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Benanti

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