di ANTONIO G. PESCE
Catania è una città borghese, che ha sempre rigettato l’idea di imborghesirsi. La sua operosità le valse il titolo di Milano del Sud proprio per questo, nonostante fosse evidente l’esagerazione. La sua nobiltà è sempre stata di piccolo taglio, rispetto a quella palermitana, e tuttavia mai immobile, mai inoperosa e sempre senza tanti grilli per la testa. Una nobiltà che, se alzava il nasino davanti al puzzo della miseria, lo faceva più per vantare i danari guadagnati col successo proprio che non i titoli tramandati da quello altrui.
Catania non è mai stata una grande capitale europea, come lo è stata invece Palermo e con buona pace della storiografia annessionista, che confonde l’unificazione con l’Unità: forse per questo ha salvato se stessa, non divenendo il grande casermone burocratico a cui s’è ridotto il nostro capoluogo nell’ultimo mezzo secolo.
Quello che i catanesi sanno di loro stessi varrebbe un trattato di politologia, semplice da capire perfino per l’incapace politica che gioca con i destini dei popoli. I catanesi non sono mai stati grandi mercanti, parassiti ai danni dei produttori e trafficanti di accordi con i potenti del momento: piccole botteghe, piccolo e sudato commercio, in cui l’abitudine e la fiducia sono la pubblicità più efficace e meno dispendiosa. E che, fino agli anni ’80, arrivava in provincia, attirandone la gente e facendo della città una metropoli senza bisogno di tanti accordi politici con le amministrazioni locali. Soprattutto, Catania era il centro della vitalità operaia. La zona industriale brulicava di assonnati pendolari, che non avevano da sperare nella puntualità degli autobus – molti allora partivano proprio da piazza Duomo, ora ultima propaggine dei divertimenti notturni dei nipoti di coloro che hanno fatto grande questa città – per il semplice fatto che, quando la realtà è vera o non un costrutto ideologico, non c’è bisogno di grandi campagne di sensibilizzazione o di spendere abbondante impegno amministrativo: a muovere Catania era un’esigenza vera, quella di lavorare, e non una moda intellettuale. Catania gareggiava con le altre città italiane non già per i suoi eventi, ma per quell’evento che nessuna civiltà mai ha ignorato: il lavoro.
Catania operaia o borghese? Una contrapposizione che non esiste se non nei libri. Perché la realtà è fatta di operosità per un’aristocrazia del sacrificio: quale che ne sia il campo, ciò che conta è il valore che produci, non il belletto con cui ti incipri.
Poi, è successo qualcosa. Lo abbiamo dimenticato, perché fu il periodo in cui sinistra e destra andarono al potere in città. Fu il periodo in cui la vita notturna decollò, anche perché quella diurna cominciava a scemare. Fu primavera, è vero. Ma per chi? Mentre spuntava il sole sul centro storico, era autunno sulla zona industriale. Correvano gli anni ’90. Ancora, i figli degli operai ricordano la chiusura di Rendo, i nove mesi senza stipendio, mons. Bommarito che faceva quel che poteva fare dietro le quinte, la visita del Papa che rischiava di saltare per via delle manifestazioni, e il silenzio della politica. Il silenzio della politica, appunto.
Quando protestarono gli operai dell’Itin, con Rendo ormai in volo per Roma, di politica se ne vide poca: un presidio in piazza del Duomo, la cui facciata veniva restaurata in quei mesi, ed appena due comunicati di vicinanza, da parte di quella politica sporca, cattiva, non allineata e non istituzionale. Faceva una certa impressione leggere il comunicato dei giovani della Fiamma Tricolore accanto a quello dei collettivi (se non ricordo male, dello Spedalieri). Faceva male vedere la politica dei voti apparire con l’approssimarsi delle telecamere di Telecolor. Ne faceva molto più sentire vaghe promesse di interessamento, soprattutto quando qualche stelle catanese, ora cadente, del firmamento televisivo veniva a sponsorizzare l’amico impegnato in campagna elettorale.
Negli anni ’90 si contrasse il lavoro in città. Catania brillava sulle emittenti televisive. Ancora oggi si incensa quel periodo, passato alla storia come ‘Primavera catanese’. Ma primavera fu per alcuni, non per tutti. Fu allora che Catania si imborghesì, divenendo la città della movida, del pubblico diletto. Nacquero decine e decine di locali notturni, la città divenne vivibile, essendo interesse di tutti che ciò avvenisse, a differenza di quel che era stata negli anni ’70 e, soprattutto, ’80. Ma se siamo ormai ridotti a contare le botteghe di via Etnea, forse qualche domanda dovremmo pur farcela. I centri commerciali sono arrivati dopo, alcuni neppure in territorio cittadino, e dunque lontani dalla possibilità dell’amministrazione comunale di impedirne la nascita. Hanno dato però il colpo finale.
Questa arcigna aria del continente, questo liolà che giunge dai rotocalchi patinati delle signore per bene, o dai viaggi in esotiche località a cinque stelle, ammirando le città del mondo da un Hard Rock Cafè o da uno Sheraton, è solo l’ultima moda di una Catania che si è persa negli anni ’90. Noi non siamo questo. Non siamo i fighetti che si comprano, a suon di campagne elettorali, il Lungomare per liberarlo dall’invadente trash delle ragazzine con tacchi alti e minigonne a passeggio col ‘mammoriano’ di turno. Perché le idee non si valutano in base a chi le propone – lasciamo questo mestiere ai prezzolati e agli illusi, e Catania ne sforna tanti – ma in base a cosa producono: un’idea che crea deserto è solo una pazzia.
Il Lungomare senza la sua gente non è il Lungomare. Catania senza la sua gente – anche meschina, anche senza lauree, incapace di capire la svolta antropologica che le si propone e il futuro radioso che le si prospetta – non è più Catania. Non ci si salva da soli, e da soli non si sta bene manco in Paradiso. Circola quest’aria fritta di snobismo intellettualoide. Ma la ‘za Rosa’ ha diritto, fintanto che non si dimostri che viola la legge, a vivere questa città come qualunque altro cittadino, ciclista o no. Venderà i suoi panini a generazioni di catanesi che non si cureranno di Cesare Ottaviano Augusto e del colesterolo. Male.
Ma non è chiudendoli nei loro tuguri una volta al mese, in quartieri divenuti pian piano latrine nella grande decadenza di questa nazione, che si possano salvare. E poi, salvarli da cosa? da un’intera giornata di lavoro alla Piana, a raccogliere arance per 30 euro in nero (lavoro che, per gli intellettualoidi, farebbero solo gli extracomunitari)? da una vita fatta di stenti, in un’Italia che emigra e lascia qui gli ultimi ad accontentarsi della pensione dei nonni? Da cosa dovremmo salvare il catanese che non va in bici e mangia panini, magari non essendo mai entrato una volta in un ristorante?
Non si ricorda una sola cosa buona fatta senza il mare. Primo articolo di ogni costituzione che si rispetti: ogni uomo ha diritto ad accedere al mare. Che non va trasformato in un Luna Park per gente viziata.
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