Crisi di governo: due settimane sulle “montagne russe”

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Possiamo tirare le somme di questa crisi, ora che volge al termine con l’incarico, accettato con riserva come da etichetta, del presidente Giuseppe Conte. Partiamo da lontano. Quattordici mesi fa è uscito dalle urne un Parlamento frammentato: prima la coalizione di centrodestra, e primo partito il Movimento Cinque Stelle. Allora pure, come oggi, qualcuno gridò alle incombenti necessità (perché in Italia c’è sempre un buon motivo per non votare), ma si usciva appena dalle urne, e forse una prova andava fatta. La si fece mettendo insieme il primo partito vincente (il M5S) e il partito più votato della coalizione arrivata prima (la Lega nel centrodestra). Un pasticcio, che non andava fatto, ma non una maionese impazzita. C’era una logica politica. In fin dei conti, la Lega è stata per lungo tempo il M5S di oggi: anticasta (romana), ribellista nella prassi, anarchica nello stile. E i due soggetti politici, seppur senza essersi prima amati, non si erano mai detestati. A metterli insieme innanzitutto una certa visione politica, battezzata dai media come sovranismo, ma di cui non molti sanno indicare padri nobili, scopi, valori. E poi gli auspici (solo quelli?) di Steve Bannon, lo stratega della vittoria di Trump.

Il governo è andato avanti per quasi un anno, finché ha potuto campare dell’aria italiana. Respirata quella europea, è morto agonizzando nel peggior modo possibile. In ordine. Primo, la Lega sfonda il 30%, doppiando l’alleato di governo. In altri tempi, ci saremmo messi tutti l’anima in pace, un mesetto di fibrillazioni, e un legittimo rimpasto. Ma i due alleati sono nuovi e alieni alla poltronofilia (come l’ha definita il comico stratega grillino), mica partiti della Prima Repubblica – l’uno, i 5S, per ovvie ragioni cronologiche; l’altro, la Lega, per la rinata indole ribellista rispolverata da un Salvini sognante, che lascia a Giorgetti il compito di tranquillizzare il Nord produttivo. Bastavano due teste, due soltanto: quella di Toninelli, disponibile a controfirmare tutti i divieti del Viminale contro le Ong, ma poco propenso alla Tav; quella della Trenta, firmante ma non sempre zelante. Ma sarebbe stato l’ennesimo cedimento, e nel caso del Ministro delle Infrastrutture e Trasportati, anche un defenestramento di un nome storico delle battaglie pentastellate.

Secondo. Il 16 luglio viene eletta la tedesca Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea. Una che è stata a braccetto con la Merkel dal primo governo. Figlia d’arte (il padre era governatore della Sassonia), ha goduto dell’appoggio della stessa cancellerie tedesco, e alla fine su di lei ha puntato anche Macron. Dunque, una figura non proprio sovranista, più assimilabile a quella del burocrate di Bruxelles dipinta tante volte da leghisti e pentastellati. Un asse, quello franco-tedesco, che si è accompagnato a quello, tutto italiano, tra Pd e Fi. Non scontato, invece, il voto del M5S, che si è rilevato determinante per l’elezione della prima donna presidente della commissione. I grillini si sono giustificati dicendo che, così, le istanze sovraniste sarebbero state accolte, e che anche la Lega era della partita, sfilandosi solo alla fine. La Lega, dal suo canto, rigettando la ricostruzione, vi ha visto un laboratorio di qualcos’altro, di qualche soggetto politico da esportare in Italia.

Come siano andate veramente le cose lo sapranno solo loro, ma dopo un paio di settimane di scaramucce, Salvini apre la crisi, credendo che Zingaretti lo avrebbe seguito. Ma Zingaretti nel Pd è un segretario in carica, e i segretari in carica, da quelle parti, vengono usati per essere impallinati. Fiutato l’agguato di Renzi, che dopo aver rottamato la nomenclatura precedente, ne ha nominato una propria, gestendo ora buona parte dei gruppi parlamentari, il governatore del Lazio si è guardato bene di ripetere ancora il mantra dell’anno: andare ad elezioni subito.

Ed oggi siamo a questo governo giallorosso. La Lega è fuori, e come commissario europeo si fa il nome di Gentiloni, cioè di un esponente del partito arrivato secondo ad ogni competizione elettorale nell’ultimo lustro. Ora, l’incompetenza di Salvini e del gruppo dirigente della Lega (perché è sicuro che certe scelte non sono frutto della volontà di uno soltanto) è fuori dubbio, ma bisogna avere il prosciutto davanti agli occhi, per non accorgersi che questo governo così tanto ricercato dagli analisti per anni, oggi incontra l’imbarazzo, se non l’avversione dell’intellighenzia di sinistra, perfino di certo giornalismo. Con il solo Marco Travaglio come l’ultimo giapponese. Per il resto, è un pallore quasi mortuario.

E forse quest’ultimo fatto, più delle parole del commissario Günther Oettinger («Se cambiano i toni da Roma, faremo tutto il possibile per facilitare il lavoro del nuovo esecutivo italiano») e di alti papaveri di Bruxelles, a dichiarare esplicitamente il luogo di nascita del nuovo governo.

 

Antonio Giovanni Pesce

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