DYLAN e “ROUGH AND ROWDY WAYS”: torna a creare emozioni un poeta del canto

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di Gian Maria Tesei

Con “Rough and Rowdy Ways”(uscito il 19 giugno), dopo otto anni dal suo ultimo album di inediti, è tornato ad allietare il nostro animo poetico e musicale, Il vate di Duluth, quel Robert Allen Zimmerman universalmente noto come Bob Dylan (nome e cognome che ha scelto di avere per legge dal 1962.)

Il cantante statunitense ha al suo attivo ben trentanove album in studio, che lo hanno reso un artista pluripremiato con premi che vanno da dieci Grammy Awards al premio Pulitzer, dall’Oscar al Nobel della letteratura, ricevuto nel 2016 (“per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”), alla cui cerimonia non partecipò perché disse di avere altri impegni. Con la sua immarcescibile capacità di generare emozioni, il musicista americano ha dato vita ad un disco con dieci tracce estremamente interessanti che lo pongono nuovamente su un piano autoriale dopo “Tempest” del 2012 e una serie di raccolte e cover ben fatte, ma che non avevano espresso la sua nota potenza creativa.

Con questo album Dylan riallaccia il suo estro ad una componente acustica, con il blues, in prevalenza, a sposare i pensieri e le immagini che il compositore del Minnesota spande copiosamente in questo suo prodotto musicale, penetrando le dimensioni della materia, dello spirito e della mente umana con grande sensibilità. L’intitolazione rimanda ad un brano country di Jimmie Rodgers, con quella copertina con un’immagine vetusta di cinque decadi, che spande nell’immaginario dell’osservatore l’atmosfera inglese dei juke box che facevano sognare  e danzare ritmi alle persone, con la colorazione (autorizzata dal fotografo dell’antica immagine) che aggiunge delle tinte consonanti con i pezzi che costituiscono l’album, che rappresentano un ensemble composto da voci della storia americana, con la memoria a veicolarle ed ad invitarci a discettare di temi quali le mete finali del genere umano, la labilità della vita, i miti e gli ideali in ambito culturale sia musicale che umanistico, che il cantautore statunitense affronta in questo disco.

 E lo fa attraverso un turbinio di citazioni immediate od indirette che fluiscono liberamente organizzate spaziando da Kerouac, a Charlie Parker, a Walt Whitman, una frase del quale diviene il titolo del primo brano del cd, che è” I Contain Multitudes”, con un ‘altra frase cheprincipia la canzone (un uomo che “dorme con la vita e con la morte nello stesso letto) che sprigiona significati profondi e rimandi alla contraddittorietà della vita e del pensiero umano.

 E le citazioni sono  presenti in tutto l’album ,anche nell’ultimo brano , quel “Murder Must Foul” che è stato il primo dei tre che ha preannunciato questo disco  durante il lock down, già il 26 marzo, e che è una ballata di quasi diciassette minuti sull’assassinio di J.F. Kennedy che poggia la sua parte finale su un’ elencazione di canzoni e personalità significative per Dylan tra cui i gli Eagles, Marilyn Monroe, i Beatles, gli Who e Woody Allen, Oscar Peterson, Stan Getz, Thelonious Monk, Art Pepper, Bud Powell e Charlie Parker , lo zio Sam, Etta James.

In “Crossing the Rubicon”, il compositore americano convoglia il suo pensiero dell’ineluttabilità della morte e della fragilità umana di fronte ad essa in un blues parlato ed evocativo.

In “False Prophet” (terzo brano proposto durante il lock down), viviamo un’esperienza durevole permeata da un blues (genere protagonista con vigore anche in “Goodbye Jimmy Reed”) che si adagia sulla mancanza di un refrain e si sostanzia su gruppi di versi dalla forte connotazione poetica.

 Un’atmosfera vagamente tendente al luciferino pervade “My Own Version of You”, mentre in “I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You” il musicista nordamericano ci appronta un mood romantico effigiando parvenze quasi arcadiche decorate da un coro delicato.

 E se il mandolino padroneggia “Black Rider”, in un’atmosfera dal sapore calido, in “Key West (Philosopher’s Pirate)”, in cui vengono menzionati Kerouac e Ginsberg, veleggia una cogitazione nostalgica, labile e fugace , con toni da beat generation, mentre “Mother of Muses”, citando Sherman, Montgomery e Scott, Zhukov, Patton, parte dagli eroi di guerra americani fino a giungere, attraverso Presley, a Martin Luther King, paladino dei diritti civili.

Diritti civili per cui si è battuto e che ha sempre esaltato, come in  “Blowin’ in the wind” e “The times they are a-changin” affermando recentemente nell’intervista in esclusiva al New York times con il prof. Brinkley:”Mi ha nauseato senza fine vedere George Floyd torturato a morte in quel modo. È stato qualcosa oltre l’orrore. Speriamo che la giustizia arrivi presto per la famiglia e per la nazione”. Lo speriamo tutti per un mondo migliore e più giusto.

 

 

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