E’ lodevole la volontà di rinunciare alla prescrizione. Pogliese, però preparati al peggio!

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Rinunciando ad ogni ipotesi di dimissioni, unitamente alla corretta intenzione di impugnare la sentenza di primo grado: Pogliese sta chiaramente pressando sulla Corte d’Appello, chiamata prossimamente a giudicarlo.

Quest’ultima, si presume, ben eviterà di far insediare un sindaco – di una grande città metropolitana – a cui è stata interdetta in maniera perpetua la possibilità di ricoprire incarichi pubblici, senza prima esprimersi.

Quindi, secondo buon senso e saggezza, è facile ipotizzare che la Corte d’Appello palermitana si pronuncerà prima della scadenza dei 18 mesi di sospensione.

I fatti.

La vicenda penale trae origine dalla gestione dei fondi dei gruppi parlamentari quando Pogliese era vicecapogruppo del PDL presso l’Assemblea Regionale Siciliana, durante il biennio 2012-2014, da cui si dimise per ricoprire l’incarico di parlamentare europeo.

Il reato di peculato si prescrive in 10 anni e 6 mesi, i fatti contestati sono fino ad ottobre 2012, quindi solo nell’anno 2023 potrà maturarsi pienamente la prescrizione per questa vicenda. La quale, è inutile nasconderlo, sarebbe un ottimo salvacondotto per poter continuare a fare politica.

Altro scenario è quello secondo cui, invece, la Corte d’Appello non si pronunci nel corso dei 18 mesi di sospensione. Allora sì, Pogliese ritornerà nel pieno delle sue funzioni di Sindaco.

Ma se dopo dovesse malauguratamente arrivare una sentenza d’appello di condanna, cosa accadrà?

La legge Severino, tanto maledetta quanto valida (dura lex, sed lex), prevede una ulteriore sospensione di 12 mesi. Infatti, l’art 11 D.Lgs. 235/2012, il quale, disciplinando le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali in condizione di incandidabilità, stabilisce al 4° comma che “Nel caso in cui l’appello proposto dall’interessato avverso la sentenza di condanna sia rigettato anche con sentenza non definitiva, decorre un ulteriore periodo di sospensione che cessa di produrre effetti trascorso il termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto”.

Alla fine della fiera, Catania potrebbe rischiare di avere lo stesso sindaco sospeso due volte.

Ebbene, al netto di un’assoluzione che, rimedierebbe omnia e tout court l’intera vicenda processuale, (ma non credo pure quella sulla opinione pubblica, che vede una classe politica destrorsa abbarbicata al potere municipale, “costi quel che costi”) NON sarebbe meglio dedicarsi al processo?

Non sarebbe più saggio concentrarsi sullo studio delle carte, della motivazione della sentenza, alla preparazione dell’atto di appello, alla ricerca di nuove prove – anziché far correre questo processo, conservando anche la possibilità di un’assoluzione in estremis giovandosi anche della vituperata (e tanto amata) prescrizione del reato, quale ultimo rimedio, ma pur sempre valido, da brandire almeno innanzi la Corte di Cassazione: per mera difesa da un potere politico che spesso la magistratura non lesina ad esercitare?

La condanna che gioca in ballo è l’ergastolo dell’uomo delle istituzioni, si chiama: interdizione perpetua!

Anziché aizzare i social o far correre il processo: non sarebbe meglio riflettere?

Infine, nessuno può discutere l’integrità morale e l’onestà di Pogliese. Ci mancherebbe.

Tuttavia alla Corte Suprema di Cassazione, che non conosce Pogliese, importano invece altri comportamenti come quelli incisi in una nota sentenza della Sezione VI, n. 11451/1987, secondo cui: “L’errore del pubblico ufficiale circa la propria facoltà di disposizione del pubblico danaro per fini diversi da quelli istituzionali non ha alcuna efficacia scriminante, perché, per quanto la destinazione del pubblico danaro sia fissata da una norma amministrativa, tale norma deve intendersi richiamata dalla norma penale, della quale integra il contenuto. Pertanto, l’illegittimo mutamento di tale destinazione, anche se compiuto dall’agente per ignoranza sui limiti dei propri poteri, non si risolve in un errore di fatto su legge diversa da quella penale, ma costituisce errore o ignoranza sulla legge penale e, come tale, non vale ad escludere l’elemento soggettivo del reato di peculato”.

Euplio.

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Benanti

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