Dalle colonne de “La Sicilia” stamane il prof. Pietro Barcellona difende il giornale del “Berlusconi di Sicilia”. In nome dell’antimafia. E la società civile, la varia umanità “rivoluzionaria” e simili che dice? I soliti silenzi?di iena miscredente marco benanti
Tempi difficili per Mario Ciancio. Ieri, il padrone di Catania ha perso la causa civile contro Report. Non solo, a Palazzo di Giustizia l’inchiesta per concorso esterno all’associazione mafiosa non si chiude. Anzi. Dopo l’ordinanza del Gup Luigi Barone che ha disposto nuove indagini, il fascicolo è finito nelle mani del Procuratore Capo Giovanni Salvi. Insomma, roba forte, per una città abituata da sempre alla “giustizia dei poveracci” e degli “stracci”.
Addirittura, il gup Barone, fra l’altro, parla di “una linea editoriale imposta dal Ciancio Sanfilippo al giornale La Sicilia in favore di esponenti di spicco di Cosa Nostra”(riferiamo quanto scritto dal comitato di redazione). Il comitato di redazione de La Sicilia ha respinto con forza questa interpretazione. Parole che sono state pubblicate sul quotidiano e sono girate anche online su vari siti. E sono passate già alcune settimane.
Bene, stamattina 28 novembre, nel giornale che riporta anche la notizia della “sconfitta giudiziaria” in sede civile con Report (e la replica dell’editore che annuncia appello), il prof. Pietro Barcellona, intellettuale della sinistra catanese, con un “cursus honorum” di tutto rispetto in campo politico, giudiziario e universitario, scrive che quella espressione del gup Barone “…non può che produrre una reazione indignata in chi come me collabora come editorialista da moltissimi anni con il giornale su indicato.”
E cosa ricorda, tra l’altro, Barcellona in questa difesa del giornale, pardon dei giornalisti? “…Proprio La Sicilia pubblicò molti anni fa un’intervista a Pio La Torre, poco prima che venisse assassinato, nella quale si denunciavano le collusioni con i famosi cavalieri e i comitati d’affari che gestivano la mediazione tra politica e malaffare….dovrei essere proprio uscito di senno per non essermi reso conto in tutti questi anni di aver collaborato con un giornale con una linea editoriale di favoreggiamento ad esponenti delle cosche mafiose”. Continua il prof. Barcellona: “…non sono peraltro il solo a poter testimoniare che il giornale mi ha offerto uno spazio libero di intervento politico e di costume sulle connessioni malavitose. Mi permetto di ricordare un caro amico e collega come Giuseppe Giarrizzo che settimanalmente interviene con i suoi impietosi commenti politici sul malaffare e la corruzione. E si potrebbero fare naturalmente tanti altri nomi di illustri personaggi che sono assidui collaboratori del giornale”.
E arriviamo veramente al top. Sentite che scrive Barcellona, che evidentemente non ha vissuto a Catania negli ultimi decenni: “accusare una testata giornalistica, che di fatto costituisce il più importante strumento di informazione cittadina, di mafiosità è proprio un errore di grammatica che denota come ancora una volta l’accusa di mafiosità possa essere un generico strumento per discreditare tutte le posizioni che emergono in un dibattito civile come quello che è ospitato da La Sicilia…”. E ancora: “poiché la libertà di stampa e di parola sono uno strumento essenziale per mantenere in piedi alcuni capisaldi dello Stato di diritto, è necessario protestare contro questo genere di pressapochismo giudiziario, specie in un momento in cui tutto il giornalismo italiano è sotto tiro per ragioni non sempre chiare…”
Questo a pag 1 a firma Pietro Barcellona. A pag 29, c’è un intervento del prof. Giuseppe Giarrizzo, un altro “nome sacro” dell’Ateneo e dell’intellettualità catanese. Titolo: “la vera libertà di stampa necessita di regole interne”. All’interno vi è scritto: “mi associo alla asciutta dichiarazione dei redattori di questo giornale”. Insomma, tutti a difendere i giornalisti.
Ora, quel che scrive il Gup è certamente criticabile, ci mancherebbe. Ma questa reazione all’unisono, nello stesso giornale, fa riflettere. La “monarchia” si sente offesa? E il Consenso potrebbe mai restare silente? Ma due intellettuali, due storici di questo blasone la ricordano o no la storia di Catania, la storia dei silenzi, delle omissioni, delle menzogne, del ruolo politico del giornale di Ciancio? Va bene a Catania tutto passa, tutto viene “ingioiato” da una cittadinanza presa quasi esclusivamente dai cazzi propri. Poi Barcellona è di sinistra, quindi ci saranno i soliti imbarazzi, balbettìi. Ma certamente, qualche “rivoluzionario”, qualche familiare di vittima della mafia, qualche “giornalista indipendente” potrebbe dire qualcosa. La diranno? Chissà. E la società civile?
Noi da cronisti di periferia, vogliamo ricordare una pagina –ma è solo un esempio, se ne potrebbero fare tanti, ma tanti altri- di cosa è passato sulle cronache de “La Sicilia”. Lo facciamo così per pudore. Anche perché sappiamo che persino i peggiori regimi, i più falsi e menzogneri, non riescono quasi mai a coprire tutto. Resta sempre qualcosa.
Tratto da “La mafia comanda a Catania 1960/1991” (Claudio Fava, 1991), vi riportiamo un episodio emblematico, uno spaccato tutto catanese, c’è di tutto e di più. Siamo nell’estate del 1984: il punto di partenza è un pentito, Luciano Grasso che vuole parlare di Catania. E soprattutto del delitto Fava. Si trova in carcere, a Belluno….. Ecco quel che scrisse nel suo libro Claudio Fava, figlio del giornalista brutalmente ucciso:
“…Il 17 luglio il sostituto Giuseppe Torresi parte per il Veneto. E’ una missione riservata, ne sono a conoscenza solo altri due giudici, il procuratore aggiunto Di Natale ed il procuratore generale Di Cataldo. Occorre agire in fretta e con discrezione: Grasso non ha ancora messo a verbale le proprie dichiarazioni, potrebbe avere paura, rifiutarsi di parlare. La mattina dopo, quando Torresi entra nel carcere di Belluno, Luciano Grasso ha già ricevuto in omaggio una copia de ‘La Sicilia’ fresca di stampa. C’è la sua foto, quattro colonne di articolo e un titolo che non lascia dubbi: ‘Un detenuto pentito svelerà i nomi degli uccisori di Fava’. Un piccolo capolavoro, a firma di Asciolla.
Era già capitato, piuttosto di rado, che un giornale fornisse qualche indiscrezione sulla deposizione di un pentito: ma naturalmente dopo l’interrogatorio. Per la prima volta in Italia, invece, un giornale aveva anticipato le rivelazioni bruciando sul tempo perfino il magistrato che era stato incaricato di raccogliere quella deposizione. Ma Asciolla aveva fatto di più: si era procurato la foto di Luciano Grasso, aveva indicato il carcere in cui il pentito si trovava detenuto, aveva pubblicato persino l’indirizzo della sua famiglia. Delle due, l’una: un’imperdonabile scorrettezza giornalistica e una clamorosa violazione del segreto istruttorio; oppure un maldestro, plateale tentativo di intimidire quel testimone.
Né l’una né l’altra, concluderà il giudice Giuseppe Gennaro due anni più tardi, chiedendo l’archiviazione del procedimento a carico di Asciolla e del suo direttore Ciancio con una sentenza di ‘non luogo a procedere’. La violazione del segreto istruttorio, spiega il giudice nella sua richiesta, è stata commessa da chi ha passato l’informazione al giornalista. Il cronista de ‘La Sicilia’ non c’entra, lui s’è limitato a fare il suo mestiere, il suo piccolo scoop…”Alla fine Grasso non fu creduto.
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