Il docente di diritto penale: “basta col populismo giudiziario”
“Dobbiamo impedire il divorzio tra la politica e la moralità pubblica. La crisi della politica è crisi dei suoi valori di riferimento, ma non sono un rimedio né l’antipolitica, né il populismo, né il giustizialismo.” Lo ha detto il prof. Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale nell’Università di Palermo, intervenendo stamattina in una seduta speciale della Commissione regionale Antimafia, dedicata ai rapporti tra politica ed etica della responsabilità, aperta anche ai vertici della burocrazia di Palazzo dei Normanni.
Dopo il saluto dei Presidenti dell’Ars, Giovanni Ardizzone, e dell’Antimafia, Nello Musumeci, il giurista ha evidenziato come “dopo la Tangentopoli, la politica non sia stata capace di elaborare nuove regole di comportamento, preferendo delegare tutto alla giustizia penale, compreso un forte sostegno alla azione repressiva della magistratura, sostegno che può essere giustificato, ma non acritico.
Le sentenze, infatti, si criticano ed è sacrosanto: non è una grave eresia farlo. Tale sostegno alla magistratura però ha finito con l’assecondare atteggiamenti di radicalismo moralistico-giudiziario, sicchè il codice penale ha preso il posto dell’etica pubblica, producendo spesso effetti negativi.”
Secondo il prof. Fiandaca “è ora di smetterla con questa sorta di moralismo etico, con questa enfatizzazione risolutiva del ricorso alla giustizia penale. I grandi mali della società non si risolvono con la repressione penale, almeno per una ragione: la stessa magistratura, al suo interno, con le sue logiche di funzionamento, è parte del problema. Assistiamo ad un dilagante populismo penale a livello politico e giudiziario, cioè alla tentazione di sfruttare per il consenso la legge penale o la denuncia.
Il risultato? Il politico fa politica con mentalità accusatoria, che spesso è un alibi per coprire la propria incapacità. La lotta alla mafia è un obiettivo prioritario, sul piano politico prima che giudiziario. Vi sono stati grandi successi della migliore Magistratura nel contrastare Cosa nostra, ma nell’ultimo trentennio è anche cresciuta la sensibilità della stessa politica. Certi atteggiamenti politici e imprenditoriali sono censurabili sotto il profilo dell’etica pubblica nel modo di fare Antimafia.
Da candidato alle ultime Europee ho constatato come molti siciliani diffidano da chi sventola la bandiera dell’Antimafia, perché ritenuta di facciata o utilizzata come strumento di lotta politica, di carriera o per fare affari. Del resto, fatti di pubblico dominio fanno apparire verosimile che l’Antimafia sia stata strumentalizzata per fini di consenso e di potere. I politici – ha concluso il docente – facciano i politici, gli imprenditori facciano gli imprenditori. Lo stesso vale per i Magistrati: ciascuno deve fare bene il proprio mestiere, senza interferenze. Serve un’Antimafia meno di legge e più nei fatti”.
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