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Fra Mafia e Antimafia: “Cosa Nostra” pentiti e collaboratori di giustizia: Santo La Causa e Antonino Calderone una scia di sangue lunga 35 anni
Pubblicato il 14 Maggio 2014
Riflessioni sentenza di primo grado “IBLIS”(nella foto Santo La Causa)
di Ignazio De Luca Iena Studiosa
Con grande soddisfazione professionale, la Pubblica Accusa avrà accolto l’irrogazione delle condanne comminate a tutti gli imputati di “IBLIS” ordinario.
Tutto l’architrave dell’impianto accusatorio, infatti, è stato ritenuto molto solido dal Tribunale che ha “scontato”, rispetto alla richiesta della Pubblica Accusa, alcune decine di anni di carcere agli imputati.
Pasquale Oliva con 18 anni di condanna invece dei 28 richiesti, detiene il primato di questa singolare classifica.
Seguono : Rosario Di Dio, 20 invece dei 26 e otto mesi, Giuseppe Tomasello 13 invece dei 19, Natale Filloramo 16 invece dei 21 e 4 mesi, Carmelo Finocchiaro 17 invece dei 22 e Fausto Fagone 12 invece dei 17 richiesti. A
seguire altre sedici condanne.
Obbligata la constatazione che è solo il pronunciamento di primo grado e che si dovrà aspettare la sentenza definitiva per l’accertamento della verità processuale, ma sin d’ora possono farsi alcune riflessioni, seppure spicciole.
Ventotto aprile 2012 risulta essere stata la data fondamentale e naturale coronamento della condivisione univoca di Pubblica Accusa e Giudicante.
Comincia quel giorno la collaborazione con la Giustizia di Santo La Causa.
La Causa con la sua “cantata”, mette in luce, meglio svela e conferma un ventennio, fino ai nostri giorni, di spaccato di elite criminale catanese, intesa come “cosa nostra”. L’ultimo collaboratore, allora si chiamavano pentiti, che era stato così puntuale e preciso nella ricostruzione delle “famiglie”mafiose, era stato Antonino Calderone, anche lui catanese. Con la sua “cantata” Antonino Calderone, disvelò scenari criminali, per i quali le indagini delle autorità inquirenti “brancolavano nel buio”. Sempre. Fino all’archiviazione.
Sia dalla ricostruzione, pur frammentaria, delle dichiarazioni di Santo La Causa, che abbiamo appreso da giornali ma anche dalla frequentazione sempre più assidua con cronisti ” di nera e giudiziaria”, nonché dalla consultazione della copiosa saggistica sull’argomento, ricaviamo una sensazione di stritolamento della società civile siciliana da parte del malaffare organizzato e ben strutturato sia nella parte militare, quella che spara, che ancora di più nella parte ” pensante ” che decide strategie e finalità .
Occorre innanzitutto fare una precisazione che ci ha impartito chi per professione è costretto a frequentare questi ambientini giorno per giorno.
La collaborazione di Santo La Causa, risulta straordinariamente preziosa, per aver ricoperto il ruolo di ” reggente ” nella ” famiglia Santapaola – Ercolano, dal 2006 al 2009, organica a “cosa nostra” intesa come associazione segreta di uomini “d’onore”. Niente a che vedere con un altro collaboratore di giustizia catanese come Gaetano D’Aquino “semplice” e ordinario killer.
In una sorta di anomalo parallelismo le dichiarazioni del pentito Calderone nel 1987, corrono veloci fino al 2012 per intersecarsi con quelle del collaborante La Causa, producendo un inquietante e preoccupante quadro d’insieme.
Come Antonino Calderone, esterno a “cosa nostra” palermitana, per essere nato e vissuto a Catania, ma cooptato ritualmente con la “pungiuta” nei vertici mafiosi più alti di “cosa nostra”, permette con le sue delazioni, di avere un quadro completo dei ranghi delle oltre 100 famiglie di “cosa nostra” palermitana, agevolando oltre 200 arresti di mafiosi, allo stesso modo Santo La Causa, con la sua collaborazione riesce a fornire un quadro sufficientemente completo dei rapporti di forza tra “cosa nostra santapaoliana” e gli altri gruppi criminali operanti nella Sicilia orientale. Anche in questo caso la Storia e la cronaca ci diranno quanti mafiosi saranno stati incastrati dalle dichiarazioni di La Causa, ma anche qui dovremmo essere nell’ordine delle centinaia .
Un altro aspetto che accomunò “cosa nostra” siciliana orientale ed occidentale furono le spietate eliminazioni degli uomini “d’onore ” vecchio stampo che “cosa nostra” emergente, i “viddani” corleonesi, attuarono su
larga scala senza guardare in faccia nessuno .
Facciamo riferimento all’agguato mortale sulla circonvallazione di Palermo subìto il 23 aprile 1981, nel giorno del suo quarantesimo compleanno, da Stefano Bontade, “principe di Villagrazia”, potentissimo e ricchissimo boss, figlio di Paolo Bontate, massone frequentatore dei salotti della Palermo bene.
Gli spietati corleonesi con una lucida e programmata strategia sanguinaria, conquisteranno Palermo e da lì l’intera Sicilia: con l’assassinio del Prefetto Dalla Chiesa il 3 settembre 1982, cui parteciperà ” cosa nostra” catanese con Nitto Santapaola, la strage Chinnici il 29 luglio 1983, fino alle stragi dei giudici Falcone e Borsellino del ’92.
Un altro agguato mortale, che farà da spartiacque tra la vecchia mafia e “cosa nostra” emergente, questa volta a Catania, si consuma, l’8 settembre 1978, ad Acicastello.
Vittima il boss Pippo Calderone, soprannominato “cannarozzo d’argentu”,
segretario della commissione regionale della cupola. Lo ammazza il suo vice, uno dei nuovi picciotti emergenti, Benedetto “Nitto” Santapaola. Il boss Calderone viene liquidato in quel luogo, perché chi spara sa bene che quello è un percorso quotidiano per il suo capo, infatti, nel periodo estivo, “Pippo cannarozzo fausu”, risiede alla “Perla Ionica” meraviglioso ed esclusivo( per le tariffe) complesso turistico alberghiero del tempo, di proprietà di uno dei cavalieri dell’apocalisse mafiosa, Carmelo Costanzo. Tutto questo succedeva in una Catania, dove informazione e istituzioni negavano all’unisono l’esistenza della mafia, che semmai, se c’era, al limite era una problematica circoscritta a Palermo.
Chi scrive se lo ricorda bene il signor Pippo Calderone, quando poco più che ventenne, inizio anni settanta, gestiva una piccola attività commerciale in via Umberto, a Catania, quasi di fronte al grande magazzino di via Umberto 30, che esponeva una grande insegna a bandiera con la scritta CALDERONE.
Tutti i giorni, più volte al giorno, il signor Calderone, percorreva con incedere fiero, i duecento e più metri, che dal bar Savia lo separavano dal suo negozio.
Ad ogni passo riceveva un deferente saluto, tenendo sempre in mano una specie di microfono che gli serviva, avvicinandolo al pomo di Adamo, per comunicare. Oggi nei locali dove il signor Calderone esercitava l’attività commerciale, vi è allocata una grande libreria.
In conclusione due ultime riflessioni sulle dichiarazioni di La Causa.
La Causa malavitoso di vecchia data, inizia il suo percorso delinquenziale, negli anni ottanta, come soldato della ” famiglia” dei Ferrera “cavadduzzo” vicino a Santapaola, quando nel ’95 esce dal carcere, i Ferrera non esistono più . Sono stati fagocitati e inglobati da Santapaola mediante l’eliminazione degli esponenti di spicco, ad opera degli stessi Santapaola. Così La Causa, garante Aldo Ercolano, entra nella ” famiglia”Santapaola, viene fatto uomo “d’onore” e diventerà “reggente”. Bella carriera.
Il rituale della “punciuta”, che determina l’ingresso “nell’onorata società” degli uomini “d’onore” assume caratteri di lugubre farsa allorché Angelo Santapaola, pur considerato dai Lo Piccolo, capi di “cosa nostra”, come il capo di “cosa nostra”catanese, che invece era Vicenzo Santapaola figlio di Nitto, non era uomo “d’onore”. Non solo. Quando Enzo Santapaola deciderà di farlo consacrare uomo “d’onore”, servirà solo come pretesto per fargli abbassare la guardia, visto che il cugino Angelo, aveva deciso morisse per mano di Vincenzo Aiello.
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