di Marco Iacona
La destra è luogo di antipatie sublimanti se stesse. Ma a Catania, la fusione tra appartenenza – sangue e “suolo” – e direzione di marcia rigidamente illiberale compie il “miracolo” di produrre una destra non sublime, come direbbe Pasolini, ma eterna. Eterna in due accezioni. Maggioritaria e immobile. Stabile e gattopardesca.
La borghesia catanese, con effluvi di rancida aristocrazia, garantisce se stessa con tanto di consanguinei e opta – in via del tutto pulsionale – per l’immutabilità delle relazioni sociali; quello che fu zoccolo duro del popolarismo – in realtà bottegai miseri e arraffanti – gode di buona posizione campando (anche) della propria incalcolabile ignoranza, il ceto popolare–impiegatizio, i disoccupati, gli emarginati, gli scontenti, gli orfani della sinistra, i delinquenti (a Catania basterebbero quelli), i mafiosi in aspettativa votano (anche) “destra” mescolando desideri d’ordine, di personale “probità” e di unilaterale giustizia per calcolo di ragione. Che la destra sia stupida è un pericoloso luogo comune.
La base elettorale è fatta. In una città che dall’Unità d’Italia ha prodotto poco o nulla per sé, figuriamoci per un più ricco contesto – si legga Giarrizzo? – dibattentesi tra inclinazioni presto sopite, incolta all’imbarazzo, mitizzante e rimitizzante i propri operatori di cultura beneficianti di godibilissima fama dal Po in su, per dar ragione allo Sciascia botanico e per ripassare a memoria una storia di riconquiste malavitose, in una siffatta città la destra si smammella devolvendo la propria superflua presenza per ogni dove, deregolando il già equivoco pensiero minchionista.
Tutti a destra e tutti di destra, leghisti aperti al Greenwashing, meloniani A/R, avventori da Grand Guignol “nazionalizzano” le proprie aspirazioni smaniando per un soldo bucato, per una tassa mai data, per la cadrega sì bella e perduta. Di cultura potrebbero vivere, di referenti di divina estrazione ne morirebbero, solo se sapessero. Sintetizzo il dibattito, in tema generale e sempre meno incorporeo della globalizzazione, nella questione prima: dialettica diritti-doveri, nell’ancor più esplicita: costumi nazionali-valori d’origine. Il cortocircuito a sinistra c’è, non manca a destra. I liberal, pirateschi, scaltramente elitari, ma d’altra elite, ridono di gusto.
I conservatori non possono non privilegiare la cultura dei “propri” diritti e valori, ma sarebbero, per ciò stesso, destinati a scomparire. Non per quella dubbia e, di certo, non prossima mutazione antropologica ma sol perché il conservatorismo non sarebbe di destra. Ve la do come notizia, anche se in ritardo. De Felice esaltò la classe media alternativa, Emilio Gentile dice, oggi, che l’Italia dai Venti in poi giocò le carte del totalitarismo, per carità di Dio, e della rivoluzione.
La nostra città, rea d’inabissarsi un piede per parola, ha bisogno d’intelligenze nuove dovendo giovarsi d’una purità differenziata. Non possiamo affidarci ai conservatori, ai narratori (inadeguati) d’un’avvilente, indurata verità. Servono menti, sfide e necessitano dolorose e allettanti rottamazioni. Lei m’intende?
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