di iena giudiziaria
Un “bancomat”: questi sono –per taluni- i disperati che arrivano in Italia da paesi lontani alla ricerca di una vita migliore. Insomma, si specula, si chiedono denari per condotte illecite, che servono per consentire la permanenza in Italia.
La “sinistra perbene” si scandalizza quando glielo si ricorda e grida alla propaganda.
Purtroppo, ci sono vicende giudiziarie che confermano questa squallida realtà. Con magari qualche sorpresa, dietro l’angolo. Come accaduto ieri a Catania, in Corte d’Assise (Presidente Grazia Caserta, a latere Sammartino).
Al centro dell’attenzione dei giudici un processo con accuse gravi, tutte naturalmente da dimostrare –a vario titolo e differenziate, associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa, falso- per cinque persone: Gaetano Augeri, Andrea Venturelli, Antonio Triolo, Nicola Ciccia, Vittorio Grasso e Chamika Dilshan Kudagammana cittadino di Ceylon. Gli investigatori hanno messo nel mirino, fra l’altro, l’attività di un centro servizi “Ucat”.
Bene, i giudici hanno accertato, su eccezione dell’avv. Sergio Raciti, che al cittadino di Ceylon non erano stati mai notificati atti nella sua lingua d’origine. Lo impone la legge, in particolare la normativa europea. Finale: tutto nullo, atti di nuovo al Pubblico Ministero. Il procedimento dovrà ricominciare daccapo.
In attesa che il procedimento riprenda –e naturalmente attendendo la verifica dibattimentale alle accuse- non ci resta che augurare agli imputati l’assoluzione: l’eventuale approfittamento della disperazione –in un caso ad una donna di nazionalità cinese l’agenzia delle entrate ha richiesto una somma cospicua, quando la donna era convinta che l’ufficio a cui si era rivolta aveva provveduto a tutto- è cosa troppo squallida, anche e soprattutto al di là di ogni legalità di stato.
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