Il giudice motiva: “non è stata richiesta in sede di ispezione cadaverica”.
Arriva risposta del legale, ecco la nota…
Sono ormai trascorsi undici lunghi mesi da quando Maria Concetta Velardi è stata barbaramente assassinata a colpi di pietra nel cimitero di Catania. Le indagini degli inquirenti sembrano proseguire su di un binario morto ed è anche per questo che l’Avv. Giuseppe Lipera, difensore del figlio della vittima, ha avanzato nel luglio scorso istanza di incidente probatorio per richiedere la riesumazione del cadavere. Secondo il difensore l’esigenza della riesumazione nasceva (con tanto di sofferenza e drammaticità atteso che si assiste il figlio della donna assassinata) dal fatto di aver riscontrato, dalle foto scattate al cadavere in sede di autopsia, evidenti “graffi” nell’area sacrale destra della vittima; la conformazione di tali “segni”, aggiunge il legale, lasciava e lascia tutt’ora presagire (secondo anche il parere del Medico Legale nominato dal Matà, dott.ssa Antonella Milana) una possibile unghiata ricevuta dalla vittima prima del decesso, con possibile sedimentazione del materiale biologico dell’aggressore e quindi del probabile assassino.
Lo scorso 25 novembre è arrivata la decisione del G.I.P. presso il Tribunale di Catania (dott. Alessandro Ricciardolo) di non autorizzare la riesumazione richiesta, perché avanzata solo successivamente all’esame autoptico e perché non ritenuta comunque necessaria ai fini delle indagini. La difesa non ci sta ed ha già presentato ricorso alla Suprema Corte di Cassazione lamentando l’illogicità della motivazione dell’ordinanza di diniego del G.I.P. di Catania. La difesa insiste sulla necessità della riesumazione perché potrebbe fornire qualche lumi all’attività di indagine e chiarisce come il dictat del Giudice meriti certamente censura poiché “Non pare che la Giustizia, il cui obiettivo è la Verità e null’altro, segua le regole del “poker” dove il “rilancio” deve essere immediato, e del resto se così fosse non ci sarebbe mai alcuna riesumazione di cadavere”.
Lo stesso G.I.P., nella stessa data, ha provveduto a rigettare anche una seconda istanza di incidente probatorio avanzata dalla difesa di Fabio Matà, figlio della vittima. Questa volta si richiedeva che al Matà, persona offesa e indagato per mero atto dovuto, venisse riconosciuta la possibilità di conoscere la relazione finale redatta dalla Polizia Scientifica di Palermo, riguardante le attività peritali svolte su tutti i reperti prelevati sul luogo del delitto. Più tecnicamente si chiedeva che la C.T.P., ordinata dal Pubblico Ministero, fosse considerata come una vera e propria perizia disposta dal “vecchio” Giudice istruttore, atteso che il Pubblico Ministero, durante la fase istruttoria, non può e non deve considerarsi “parte”, in quanto è lui stesso a dover dirigere l’intera attività di indagine.
“Oggi il Giudice istruttore è il Pubblico Ministero”, insorge così l’Avv. Lipera nel ricorso per Cassazione avverso questo secondo rigetto. Nelle pagine del ricorso la difesa si interroga anche su quale possa mai essere il senso di partecipare al conferimento dell’incarico del CTP, di poter assistere alle operazioni di consulenza, di poter nominare un proprio consulente (Gen. Dott. Luciano Garofano) se poi però non si possa interloquire in alcun modo sul contenuto della relazione finale. Ciò che si chiede alla Suprema Corte è un’interpretazione autentica delle disposizioni racchiuse e sottese nella norma (art. 358 c.p.p.), chiarendo, in via del tutto definitiva, come nel corso dell’attività istruttoria il Pubblico Ministero vada sine dubio equiparato alla vecchia figura del Giudice istruttore, da cui ne trascende ruolo e poteri.
Nella remota ipotesi in cui si dovesse ritenere di non poter sposare la suesposta tesi – prosegue la difesa – appare allora inevitabile sollevare la questione di illegittimità costituzionalità dell’art. 360 III comma c.p.p., per evidente contrasto con l’art. 24 della Costituzione, nella parte in cui non concede alla difesa dell’imputato (e della persona offesa) la possibilità di poter avere conoscenza della relazione svolta dal “consulente” del Pubblico Ministero e, in esito all’esame, fare proprie osservazioni.
Il tempo scorre inesorabile, l’assassino è ancora in libertà; le speranze del figlio della vittima di aprire uno spiraglio nelle indagini sono ora affidate alla Suprema Corte di Cassazione.
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