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Giustizia catanese, S.Agata e la mafia: tutti assolti con formula piena. Ma chi “paga il conto” di questo fallimento?
Pubblicato il 08 Febbraio 2013
Considerazioni “politicamente scorrette” su una sentenza che dovrebbe suscitare interrogativi: ma chi avrà le palle di criticare la Procura della Repubblica?
di iena miscredente marco benanti
E, come si poteva prevedere, alla fine la “montagna ha prodotto il topolino”. Il processo su mafia e festa di Sant’Agata finisce con un’assoluzione generale degli imputati. Assoluzione con formula piena. Il fatto non sussiste. Insomma, parliamo di nulla mescolato con niente.
Facciamo cronaca:
il 20 novembre scorso erano state avanzate le richieste della Procura della Repubblica, con il Pm Antonino Fanara. Eccole: una richiesta di condanna (per Pietro Diolosà, ex presidente del circolo Sant’Agata, imputato di concorso esterno), sei (Nino e Francesco Santapaola, Salvatore Copia, Enzo, Alfio e Vincenzo Mangion imputati di associazione mafiosa finalizzata ad ingiusti vantaggi) di non doversi procedere perchè l’azione penale c’è già stata per lo stesso fatto, un’assoluzione (Agatino Mangion, imputato di associazione mafiosa finalizzata a ottenere ingiusti vantaggi) per non avere commesso il fatto.Il dato -confermato anche dal Pm- è casomai quello dell’affermazione sociale del Potere mafioso al fine di dominare la scena in altri campi. Ma questo con la definizione precisa e concreta di vantaggi patrimoniali come si definisce e dimostra giudizialmente? Lo avevamo scritto e lo confermiamo. Finale: tutti assolti.
Alla lettura del dispositivo (nella foto in alto) dei giudici della quarta sezione del Tribunale di Catania (presidente Michele Fichera, un giudice, uno vero, autonomo) nessuno ha fiatato: soddisfazione in viso per gli avvocati difensori, ovviamente. Il Pubblico Ministero Antonino Fanara è andato via, senza dire niente. Qui, è bene subito dirlo, non c’è un “vincitore e un vinto”: non è così. E nessuno si sogna di dirlo. Ma qualche considerazione e qualche domanda -per onestà intellettuale- va detta e fatta. Tanto non lo farà nessuno: non lo faranno gli avvocati (che temono troppo la Procura della Repubblica per dire fino in fondo cosa pensano), non lo faranno i politici (che sono anche loro spaventati dalla Procura, altro che magistratura sotto il tacco della politica, come si racconta -in modo disonesto- in molte trasmissioni tivvù alla moda), non lo farà la città (magari anche quella parte di città che probabilmente sa e che anche stavolta preferirà tacere e tirare avanti). Insomma, Catania, con le sue miserie e i suoi rari momenti d’orgoglio, è sempre uguale a sè stessa. Non c’è una cultura condivisa dei propri doveri, si cerca il proprio piccolo interesse: un piccolo teatro piccolo borghese che non chiude mai.
C’è il dato di una festa che da sempre vede i mafiosi partecipare, eccome: ma quali sono i riflessi penali, quelli dimostrabili in un’aula di giustizia? Quanti commercianti, quanti operatori della festa sanno e parlano? In termini di ipotesi di reato, non di costume sociale, lo precisiamo. E allora le indagini come sono state fatte? Quanto sono costate? Ci sono stati viaggi per caso? Nel caso si fosse notato che l’azione penale non portava a nulla di rilevante si sarebbe dovuto fermare tutto? Oppure: è stato bene andare avanti in queste condizioni? Chi ha seguito il processo ha notato presto che si andava verso un nulla di fatto, non ci voleva certo una laurea in giurisprudenza…e allora? C’è stata una strumentalizzazione politica della vicenda? Il caso è servito su più livelli?
Ma c’è di più: sulle responsabilità -sociali, morali- della chiesa catanese nessuno o quasi dice nulla. E sul mercato della cera? Quanti denari produce? E a chi? E chi organizza al comune di Catania la festa ha fatto tutto quello che doveva fare?
Si tira avanti: quando leggeremo le motivazioni saremo ancora più precisi. Intanto, risuona, anche attorno alla festa, il ritornello “legalità, legalità”: è sufficiente? Quando non si ha un’idea della propria responsabilità e del proprio dovere individuale, tutto resta slogan. Il resto è cinema o teatro, magari utile per qualche “comparsata politica”.
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