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I cento anni dalla nascita di un mito del cinema italiano: Alberto Sordi
Pubblicato il 16 Giugno 2020
di Gian Maria Tesei
Ci ha abbandonato fisicamente nel 2003 ma avrebbe compiuto un secolo giorno 15 giugno una delle figure attoriali italiane più note di tutti i tempi, un’impareggiabile maschera dei romani( in gioventù la sua inflessione vernacolare romanesca lo fece scartare dopo poco tempo trascorso all’Accademia dei filodrammatici di Milano) e degli italiani, di certa romanità ed italianità. Un artista completo che ha calcato il piccolo ed il grande schermo, ha fatto l’intrattenitore in programmi televisivi, ha cantato “cor suo vocione” ed ha fatto sorridere, ridere e pensare milioni di spettatori italici, e non solo. Il grande Albertone nazionale.
Il mitico Alberto Sordi da Trastevere( Roma), da quella via San Cosimato 7, in cui vide la luce dalla madre( a cui era legatissimo) insegnante elementare, con il padre che era professore di musica ( elemento che l’accompagnò per tutta la vita) e strumentista ed appartenente alla compagine dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, spiccò il volo per divenire un monumento del cinema italiano.
Dopo aver vissuto a Valmontone, paese d’origine del padre, nei pressi di Roma, ebbe la sua prima svolta nello sviluppare, dopo avere avuto fino agli undici anni una voce da soprano che espresse nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina, una voce da basso naturale, che tanta fortuna gli avrebbe dato in seguito, con i trionfi ottenuti alla radio (con personaggi come Mario Pio) nel secondo dopoguerra.
Ma già un po’ prima poté mostrare le sue doti quando nel 1937, dopo avere fatto la figurazione semplice a Cinecittà , firmò il doppiaggio di Oliver Hardy (Ollio, nel mitico duo con Stanlio) per la Metro-Goldwyn-Mayer e , fino al 1956, di altri grandi della cinematografia mondiale, quali Robert Mitchum od Anthony Quinn ed addirittura , tra gli attori italiani, in ”Domenica d’agosto” quel Marcello Mastroianni con il quale condivise l’essere uno degli attori che incrociarono le proprie vite artistiche con un altro immenso della filmografia mondiale, Federico Fellini, che il 20 gennaio avrebbe celebrato anch’egli i suoi cent’anni.
Un Fellini con cui intraprese una lunga amicizia, principiata nell’ottobre del 1943, momento in cui il regista de “La Dolce Vita”, da poco coniugatosi con Giulietta Masina, notò le sue capacità attoriali in un varietà( altro ambito in cui l’attore romano ebbe modo di emrgere)al cineteatro Galleria (dove durante la guerra i perfomer si radunavano in cerca di scritture, come si può ben notare proprio in un film di Sordi,”Polvere di stelle”), condividendone i sogni , poi realizzatisi, di gloria ed affidandogli il ruolo di protagonista nel suo primo lungometraggio(“Lo sceicco bianco, del 1952, che non ebbe un grosso successo di critica né di pubblico) e che lo fece brillare da co-protagonista ne “I vitelloni” , del 1953.
Furono queste le due pellicole che, dopo una decina d’anni vissuta all’insegna di piccoli ruoli, lo lanciarono( con una carriera sul grande schermo fatta nel complesso di 147 film assieme a due celebri interpretazioni in tv quali “Il Tassinaro” ed “I promessi sposi”) mediante interpretazioni significative come nelle collaborazioni con Steno in film quali Un giorno in pretura (1953), Un americano a Roma (1954) e Piccola posta (1955), in quest’ultima pellicola con accanto quella Franca Valeri con cui avrebbe realizzato il successo de “Il vedovo”.
Pian piano, in quelle produzioni cinematografiche, Sordi incominciò a costruire il personaggio accidioso, abulico, neghittoso che popolò le produzioni filmiche a cui partecipò in quegli anni. Anni in cui prese parte ad una media di otto- nove film ogni dodici mesi ed incominciò a costruire il volto di quell’italiano medio un po’ cialtrone, ma simpatico, buontempone ma un po’ cinico che si sarebbe espresso compiutamente ne”Il medico della mutua”(1968) di Luigi Zampa, impostando contemporaneamente quella capacità tragicomica che lo avrebbe fatto affiancare ad altri geni di quella commedia all’italiana , quali , Vittorio Gassman, Nino Manfredi ed Ugo Tognazzi, che tanta fama hanno dato al cinema italiano.
E la capacità di saper vibrare anche sfumature più dolenti gli consentirono di dare vita ad interpretazioni quali quelle offerte ad esempio in “La grande guerra” (1959)con Gassman ( furono tante le collaborazioni con attori di grandissime qualità) in “Detenuto in attesa di giudizio”(1971) di Nanni Loy (che nel 1972 gli regalò l’Orso d’argento al Festival di Berlino o “Un borghese piccolo piccolo”(1977) di Mario Monicelli , perfomance di livello internazionale assoluto.
Sono tante le pellicole che lo fanno, a giusto merito, ritenere un re della cinematografia italiana. Ma probabilmente quella che rappresenta maggiormente una certa parte del suo carattere, scanzonata, guascona , divertita è il “Marchese del grillo”,una cui frase ha eletto ad epitaffio sulla sua lapide.
Fu anche un buon compositore ed a riguardo celebre è il testo di “Breve amore”in “Fumo di Londra”, film con il quale esordì alla regia nel 1966, per poi continuare per altri 18 prodotti filmici in quella veste.
Con un solo ufficiale grande amore nella sua vita, Andreina Pagnai, di quindi anni più grande e con cui stette nove anni, e tanti amori tenuti nella discrezione della sua riservatezza, il grande Alberto ha avuto tantissime partner sugli schermi, come ad esempio Monica Vitti, mantenendo un legame particolare con Silvana Mangano, per la quale vox populi vuole che abbia nutrito ben più che un sentimento d’amicizia.
Non si sposò mai (“Mi metto un’estranea in casa?”), sempre confortato dall’affetto delle sorelle e con una sorta di “figlio” artistico in Carlo Verdone, con un alone di tirchieria aleggiante su di lui che confliggeva con le donazioni che faceva in una sorta di silenzio rispettoso dell’atto e delle persone. E le sue interpretazioni, anche televisive, i duetti con Mina e tutta la sua storia artistica sono doni di un campione di italianità e di talento recitativo unico ed immortale, a cui è mancato probabilmente un grande riconoscimento internazionale ma mai l’affetto del suo pubblico.
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