di Fabio Cantarella
A leggere quel che sta accadendo a Palermo, con i risvolti sulle delicate indagini in merito alla presunta trattativa tra pezzi deviati dello stato e la mafia, culminati nell’emissione di diversi avvisi di conclusione delle indagini a carico di ex vertici del Ros come Subranni, Mori e De Donno, ed ex ministri come Calogero Mannino e Nicola Mancino (siamo nel periodo delle stragi del 1992 in cui vennero uccisi i giudici Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, con gli uomini delle rispettive scorte) vien da chiedersi, per disperazione e incredulità dinnanzi alle notizie che trapelano, se tutto il sistema non sia marcio dalla testa ai piedi. Nessuno escluso. Fa venire i brividi, al solo pensiero, l’immaginare che chi è pagato con soldi pubblici per tutelare gli interessi collettivi, si sia anche solo prestato a trattative con i mafiosi, riconoscendo vantaggi a questi ultimi pur di porre fine alle stragi. Questo significa aver tradito lo Stato sano, quello rappresentato da Falcone e Borsellino e significa pure aver tradito il Popolo. In altri tempi la pena più giusta per chi si macchiava di un’onta simile poteva essere soltanto l’impiccagione; oggi, in questa Italietta figlia di una società corrotta, sono ancora tutti a piede libero dopo vent’anni dai fatti.
E la questione della fedeltà allo Stato e alle sue leggi, per il Ros non si pone solo nella Palermo di vent’anni addietro, ma anche oggi, tanto che l’attuale comandante del Ros, il generale Giampaolo Ganzer (che, come se nulla fosse, va tranquillamente in giro a tenere conferenze stampa su indagini condotte dal corpo da lui ancora comandato) è stato condannato in primo grado a ben 14 anni di carcere, e 65 mila euro di multa, dall’ottava sezione penale del Tribunale di Milano. Si legge nella motivazione della sentenza di primo grado “non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’ assoluta impunità…. ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge”. Certo, nulla a che vedere con la mafia, ma sempre, a meno di un capovolgimento della sentenza in Appello, di fatti gravissimi si tratta. E per di più Ganzer è ancora lì al suo posto, a comandare il Ros senza che lui, nelle more del giudizio d’Appello, abbia avvertito il dovere di autosospendersi e senza che nessuno dei nostri tanti bei politici l’abbia invitato a farlo. Per carità, finché non saranno espletati i tre gradi del giudizio Ganzer si dovrà presumere innocente, ma per comandare un corpo importante e strategico come il Ros non si dovrebbere avere neppure l’ombra del sospetto! Il Tribunale di Milano, peraltro, ha anche condannato Mauro Obinu, ex colonnello del Ros (oggi generale all’Aise), a sette anni e dieci mesi, ma pure altri undici uomini tra ufficiali ed ex ufficiali dell’Arma dei carabinieri.
Si legge ancora nella motivazione della sentenza emessa dal Tribunale penale di Milano che i quattordici anni di reclusione inflitti all’attuale comandante del Ros, Giampaolo Ganzer, sono determinati oltretutto dall’aver aver guidato “un gruppo dedito alla commissione di una serie indeterminata di illecite importazioni, detenzioni e cessioni di ingenti quantitativi di cocaina, eroina e hashish e pasta di cocaina, utilizzando la struttura, i mezzi, le relazioni e l’organizzazione dell’Arma dei Carabinieri, abusando della propria qualità di pubblici ufficiali, avvalendosi in modo strumentale delle norme che regolano la consegna controllata, l’acquisto simulato, il ritardato sequestro ed arresto da parte degli operatori di polizia giudiziaria”. Per quella che è stata definita come una “banda in divisa” dal Tribunale di Milano (leggi alla fonte, Il Fatto Quotidiano).
C’è ancora una speranza? Sì e te ne accorgi quando per esempio ti ritrovi in Tribunale a Catania, ad ascoltare per quattro ore il maggiore del Ros etneo, Lucio Arcidiacono, ricostruire con dedizione, passione ed alto senso dello Stato tutti i presunti rapporti tra politici, imprenditori e mafia. Sì, lì ti accorgi che il sistema non è tutto marcio e che ci sono ancora uomini che credono nel loro lavoro, nello Stato verso il quale hanno prestato un giuramento solenne. Qualche speranza di rimettere le cose sul giusto binario c’è ancora, anche se la sfida, giorno dopo giorno, con il decadimento morale che si abbatte sempre più sulla nostra povera società, diventa davvero impegnativa.
Ci resta, al momento, solo una lontana speranza per una Sicilia e un’Italia migliori, e lo comprendi, che la speranza è davvero flebile, nel leggere proprio quel che trapela dall’inchiesta sul presunto “patto” tra stato malato e mafia, condotta dalla Procura della Repubblica di Palermo, un po’ spaccata sulla vicenda per la verità, che ha portato alla notifica di dodici avvisi di conclusione delle indagini a pezzi …dello stato e a mafiosi, questi ultimi pezzi di merda senza il minimo dubbio. Per i primi, invece, per sapere con certezza di che ‘pezzi’ si tratta, dovremo aspettare l’esito del processo.
Avvisi di conclusione delle indagini, che sono stati notificati ad ufficiali dei Carabinieri, un tempo assegnati al Ros, ad alcuni boss di Cosa nostra siciliana ma anche e soprattutto a rappresentanti delle istituzioni. Al momento sono tutti accusati di essere i protagonisti della trattativa che, a partire dagli inizi del 1992, lo stato deviato portò avanti con i boss mafiosi. L’avviso di conclusione delle indagini è un atto che consente ai destinatari il deposito di una memoria o la richiesta di farsi interrogare e, quindi, di regola precede la richiesta di rinvio a giudizio da parte dei pubblici ministeri. E’ stato notificato agli ex ministri, Nicola Mancino e Calogero Mannino, al senatore Marcello Dell’Utri (che si distingue per passare da un processo all’altro senza che nessuno riesca a condannarlo), agli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni (che fu comandante del Ros dal 1990 al 1993), Mario Mori e Giuseppe De Donno, a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, e ai boss Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Bernardo Provenzano e Nino Cinà.
L’ex ministro Calogero Mannino, tra gli indagati, avrebbe avuto un ruolo centrale nella trattativa. A cominciare dai primi mesi del 1992 avrebbe preso informazioni dagli investigatori “al fine di acquisire notizie dai boss ed aprire la trattativa con i vertici dell’organizzazione mafiosa, finalizzata a sollecitare richieste di Cosa nostra per far cessare la strategia stragista avviata con l’omicidio Lima” e che aveva lo stesso Mannino tra i possibili obiettivi.
Agli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, invece, i pubblici ministeri palermitani contestano l’avere preso contatti con esponenti mafiosi “agevolando l’instaurazione di un canale di comunicazione con i boss finalizzato a sollecitare eventuali richiesta di Cosa nostra per fare cessare le stragi”.
I capimafia Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e Cinà sono accusati di avere minacciato rappresentanti del Corpo politico dello Stato “prospettando l’esecuzione di stragi e omicidi”. Al senatore del Pdl Marcello Dell’Utri si contesta, invece, di avere assunto un ruolo di mediatore con i vertici di Cosa Nostra “agevolando il progredire della trattativa tra mafia e Stato“.
Infine, mentre Massimo Ciancimino, reo confesso delle comunicazioni tra il padre Vito e Bernardo Provenzano, risponde di concorso in associazione mafiosa, all’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, si contesta la “menzogna di Stato”: avrebbe detto il falso sui contatti tra il Ros e Ciancimino ed anche in merito alla sostituzione al Viminale di Vincenzo Scotti “per assicurare l’impunità ad altri esponenti delle istituzioni”.
Nell’indagine sono finiti pure l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, l’ex capo del Dap Adalberto Capriotti e l’europarlamentare dell’Udc Giuseppe Gargani. Per essi l’accusa è di false informazioni rese al pubblico ministero. Ma la legge prevede che l’inchiesta, in questo caso, sia bloccata fino alla definizione in primo grado del processo principale, quello relativo alla presunta trattativa. Pertano, l’avviso di chiusura delle indagini ai questi ultimi tre non è stato ancora notificato pur essendo indagati.
Nell’avviso di conclusione delle indagini si sottolinea anche il ruolo dell’ex capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, e dell’ex numero due del Gap, Francesco Di Maggio, entrambi deceduti. Secondo i pm avrebbero concorso entrambi nel reato di violenza a Corpo politico dello Stato.
Come anticipavamo si tratta di un atto che a quanto pare ha fatto registrare una “diversità di vedute” in Procura a Palermo, tanto che l’avviso di chiusura delle indagini non reca la firma del procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, né quella di uno dei pubblici ministeri che negli ultimi quattro anni hanno condotto l’inchiesta, ovvero Paolo Guido.
E che all’interno della classe giudiziaria ci sia polemica sull’indagine relativa alla trattativa tra stato e mafia, emergerebbe anche dallo scambio di mail tra i giudici di Magistratura Democratica, la corrente di Sinistra delle toghe. Il dott. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, difende con forza l’operato dell’ex ministro della Giustizia, Giovanni Conso, incassando la solidarietà di alcuni anziani colleghi ma non quella delle giovani leve di Magistratura democratica alle quali non piace la critica rivolta da Nello Rossi a un’inchiesta che “solo i pubblici ministeri di Palermo conoscono a fondo“. “Come fai a dire che Conso è innocente se non conosci gli atti?”, si chiedono ancora.
La risposta di Giuseppe Cascini, che è stato anche segretario dell’Associazione nazionale magistrati, è durissima: “Ribadisco il mio sentimento di stima a Conso che a 90 anni si trova inquisito”. E poi il dott. Cascini replica in merito alla obiezione sulla conoscenza dell’inchiesta, “Chiunque legga il Fatto Quotidiano la conosce. E comunque, per il bene della magistratura, spero che nell’indagine ci sia qualcosa in più rispetto a quello che è venuto fuori”.
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