Il Bellini smarrito dei catanesi


Pubblicato il 13 Dicembre 2020

di Marco Iacona

Sono anni oramai che non leggo roba siciliana (e catanese, per chi ama spaccare il capello in quattro). Per dire: in linea di massima, mi fermerei a letture che precedono di molto la mia venuta al mondo.

“Dopo gli anni perduti” di Brancati (1936) scrivere della mia città è del tutto inutile. Catania quella è, e da lì non si è mossa, purtroppo. “Il tramonto della cultura siciliana” di Gentile (1917) e i libri di Sciascia mi permettono di capire – hanno permesso di capire a me e a pochi – quel che c’è da capire; aggiungo i “Problemi dell’economia siciliana” di Paolo Sylos Labini (oramai quasi dimenticato) e “Come si può essere siciliani?” di Piero Violante. Poi: poca roba. La stragrande maggioranza è merce narcisistica, di “figli di”. Se vogliamo, possiamo anche usare la mente di Pirandello: non ci sono verità “uniche” ma, ancora niccianamente, non ci sono verità che non siano quelle di una vita “non inquadrabile”; una verità “psicologica” (perché Pirandello e Nietzsche erano, in primo luogo, due grandi psicologi), relativizzata al suo nascere (estetica?), immorale. Una verità nata già vecchia che non lascia dunque il segno. Disinnescabile con una scrollatina di spalle.

Non mi interesso di giornalismo catanese, se esiste ancora il giornalismo, e non mi interessa la “voce” del giornalismo cittadino. Qui, basterebbe Marx – la verità è di classe – per sputtanare tutti e… amen. Ma oggi, non me la voglio tenere. In prima pagina sulla “Sicilia” la foto del Cigno catanese e due righe di lamento perché la Scala avrebbe “osato” non darsi pregio con la musica di Bellini, il 7 dicembre scorso. Loro invece, i catanesi, sì che lo amano il Cigno. Lo amano così tanto da aver dedicato a lui il palazzo della “cultura”, lo amano così tanto da dedicargli non uno ma due (in passato tre?) festival; festival che non siano, appunto, eventi di mera autoglorificazione, per fare curriculum, ma appuntamenti importanti da un punto di vista teatrale e musicale, serate adatte a lasciare il segno nella storia interpretativa, eventualmente idonee ad “inaugurare” un’epoca nuova. Un festival, insomma, che sia o che faccia “scuola”… Macché. Abitudine siciliana di farsi rimorchiare dal primo venuto, salvo poi costruirsi gli alibi della facile lamentala. Noi? “Innocenti siamo, facciamo quel che possiamo” (o quel che vogliamo?), “gli altri invece, quelli del Continente”, i milanesi, ci snobbano e snobbano le nostre migliori menti”. Capito no? Cosa “loro” quando è utile a loro, cosa “di tutti” quando occorre lamentarsi. Ché, se non altro, la lamentela qualcosa fa.

Due commenti, per concludere: a prescindere dal fatto la Scala, così come qualunque teatro del pianeta, può decidere in assoluta libertà chi o cosa portare in scena, e se è artisticamente conveniente: e questo è pacifico (a Vienna “Puritani” fu data molti ma molti decenni dopo la scomparsa di Bellini). Davvero non vi siete mai accorti che c’è un’Italia che annega nel camillerismo, nello slang siculo, che sopravvaluta l’epica isolana, un’Italia verghizzata, un’Italia vassalla della cultura palmizia. Pronta ad inchinarsi al boss siculo? No? Io sì, per questo continuo ad amare Bellini senza stracciarmi le vesti se, il compositore, viene messo momentaneamente da parte. L’ho già scritto: a tutto il resto penseranno i “catanesi” e ciò mi basta. In tutti i sensi.

 

 

 

 


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