DI GIAN MARIA TESEI
E’ stato un’icona unica e, forse, irripetibile del cinema francese, in particolare della Nouvelle Vague, e di tutta la cinematografia mondiale, dotato di carisma e personalità uniche che lo hanno reso mitico assieme alle sue indiscusse capacità interpretative. Ad ottantotto anni ci lascia Jean Paul Belmondo, “Bébel”, ossia bebè, come si faceva chiamare. Un grande attore che con il suo volto dai lineamenti forti e marcati aveva bucato gli schermi di tutto il mondo ammaliando le sue colleghe nonché stuoli di ammiratrici, colpite dal suo non essere bello ( anzi “brutto”) ma molto affascinante, incarnando ruoli da uomo duro ma buono, un po’ spensierato e faceto, forte ed impavido, raccogliendo in parte l’eredità di Jean Gabin, mito con cui lavorò in “Quando torna l’inverno” del 1962 e “Il clan dei Siciliani,” del 1969, entrambi diretti da Henri Verneuil. Il grande Jean Paul ha recitato, da protagonista assoluto o da coprotagonista, in film dal grande impatto, quali “La mia droga si chiama Julie “, “Borsalino” o “La ciociara” (film che permise il conseguimento del premio Oscar quale migliore attrice a Sofia Loren nel 1962), sotto la mano registica di director quali Goddard e tanti altri grandi del mondo filmico, dividendo la platea dei fan del cinema francese con un altro grande quale Alain Delon.
Di origini italiane, dovute al nonno paterno piemontese ed alla nonna paterna sicula, Jean Paul ha nel sangue la predisposizione all’arte dovuta al padre scultore ed alla madre pittrice, inclinazione che egli declina negli studi presso il Conservatoire national supérieur d’art dramatique, nonostante mostri una maggiore attrazione per le attività sportive ( anche se nel corso della sua vita ha saputo contraddistinguersi per una buona cultura, perché diceva che la bellezza, che non era sicuramente la sua prima dote, non bastava) tanto da provare ad avviare una carriera da pugile(a cui si deve il suo caratteristico naso schiacciato) prima di diventare artista del grande e piccolo schermo per 92 volte, mantenendo interesse per lo sport anche successivamente, divenendo inoltre ad inizio anni ’70 socio dell’efflorescente PSG, squadra di calcio assurta ulteriormente agli onori della cronaca quest’estate per l’acquisto di Messi.
Il suo approdo al mondo della filmografia segue ai primi passi da interprete teatrale in pièce quali “L’avaro” di Molière e “Cyrano de Bergerac” di Rostand ed avviene con uno short film, curiosamente legato al suo primo ruolo sul palcoscenico ossia “Molière” di Norbert Tildian. Il suo stile e le sue doti recitative lo rendono presto affermato e noto , guidato da metteur en scène come Claude Chabrol e Vittorio De Sica ( rispettivamente in “Doppia mandata” ed il suddetto “La Ciociara”), ottenendo però la sua definitiva consacrazione grazie a Jean Luc Goddard pluripremiato regista di culto della Nouvelle Vague ( anche un Oscar alla carriera nel 2011), che gli affida il ruolo di Michel Poiccard (ed il suo alias László Kovács) in quello che viene da tutti reputato il manifesto proprio della Nuovelle Vague, ossia “À bout de souffle” (“ Fino all’ultimo respiro”, 1960), con Jean Seberg (grande attrice statunitense che concluse la sua vita con un tragico suicidio).
Da quel momento in poi è tutto un crescendo che lo vede stagliarsi nell’olimpo della cinematografia internazionale (creando anche una bella sinergia con Lino Ventura), con quell’eterna rivalità con l’amico avversario Alain Delon ad avvincere i pubblici cinematografici di tutto il mondo, in un confronto segnato per l’attore nato a Neuilly-sur-Seine, presso Parigi , dalle sue innate simpatia, istrioneria, atleticità e comunicatività e per “Faccia d’angelo”, ossia Delon, dalla bellezza abbinata ad atteggiamenti cupi ed al dibattersi nell’intimo dello spirito che ne hanno fatto un bel tenebroso. E proprio quest’ultimo alla notizia della scomparsa del suo caro collega amico-nemico ha commentato dicendo che sarebbero dovuti andar via insieme… e che ne esce completamente annientato, avendo inoltre lavorato più volte con Belmondo, come in “Borsalino”, celebre pellicola di Jacques Deray del 1970.
E proprio negli anni settanta Jean Paul vira su prodotti più commerciali , inserendosi in seguito nel filone poliziesco senza mai però abbandonare il cinema autoriale ( con pellicole firmate, nel corso del suo intero cammino artistico, da Francois Truffaut ed Alain Resnais, solo per citare alcuni grandi director che hanno lavorato con lui), con importanti collaborazioni con Claude Lelouch, con cui aveva già recitato in “Un tipo che mi piace” del 1969 e per il cui “Una vita non basta”, del 1989, consegue il il Premio César per il migliore attore, unico riconoscimento assegnatogli fino a quel momento a cui seguiranno solo la Palma d’Oro onoraria al Festival di Cannes del 2011 ed il Premio Leone d’oro alla carriera del 2016 al festival di Venezia ( accompagnato sul palco da una splendida Sophie Marceau ), quando già da quindici anni un ictus aveva ridotto la sua indimenticabile verve fisica ed atletica( in parecchi film non si faceva sostituire dallo stuntman nelle scene più pericolose), inducendolo a ridurre le apparizioni pubbliche, dopo una carriera che negli anni ’80 lo aveva veduto ritornare all’amore per le interpretazioni teatrali.
“Le magnifique”, come veniva appellato, è stato un grande seduttore, stabilendo relazioni sentimentali con illustri colleghe come Ursula Andress e la nostra compianta Laura Antonelli ( ben sette anni insieme), sposandosi due volte ed avendo quattro figli ( di cui una, Patricia, deceduta a seguito di un incendio), lasciando in eredità il suo sorriso scanzonato e le grandi interpretazioni e regalandoci come suo insegnamento, espresso proprio da premiato a Venezia, il non pensare al passato, il non avere rimpianti e pensare sempre al futuro. Fino alla fine.
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