di Marco Iacona

A chi pensa io voglia mischiare il sacro col profano dedico queste prime righe. Conoscevo di vista e di fama il grand’ufficiale Maina, la sua scomparsa mi ha rattristato. Non amo, non amavo, non amerò la festa di sant’Agata né, come sa chi mi conosce, amo questa città di mediocri chiacchieroni, eppure Maina era un personaggio poetico, tra i pochi portatori di bellezza, perché dava valore a suo modo a quei “segreti” che restituiscono a questi luoghi l’importanza di spazi di cui non ci si dovrebbe vergognare.

Aveva una sua altezza, Maina, un suo spessore, una sua passione e lo si comprendeva dalla superficie delle cose, e dalle stesse cose in loro. Per lui, credo di poter dire senza tema di smentita, Catania era un’area di lavoro da colmare di sacralità, non un luogo da occupare e per cui conquistare istanti di evanescente gloria. Immagino (posso solo immaginarlo) che le esagerazioni che contraddistinguono una città che non sa vivere di normalità non gli appartenessero punto. Ci mancherà, e ci mancherà quella sua presenza da uomo all’antica. Nelle stesse ore della sua scomparsa, il sindaco Pogliese, fiore all’occhiello di una destra catanese che da anni (da “sempre”?) non sforna uomini di cui andare completamente fieri, veniva condannato in primo grado a più di quattro anni per vicende che non intendo qui ricordare; gli informati conosceranno senz’altro ogni particolare: Catania è la città dei mille particolari mescolati a fiumi di incolmabile ignoranza. Il sacro non muore, si trasforma, il caduco se ne va senza lasciare traccia.

Lo ripetevo a me stesso recandomi al funerale di Maina, e nell’atto di entrare in chiesa non ho resistito alla tentazione (impulsiva) di fantasticare, immaginando che il funerale non fosse per un uomo dall’aria mite e meditabonda ma per una classe politica – la destra in primo piano e saltuariamente – che, da anni, non riesce a governare una città ridotta ai minimi termini. Non do qui le colpe alla magistratura, avrebbe senso forse solo per grandi personalità come Craxi non certo per Pogliese, né mi lascerò andare all’inutile lamentela del cittadino comune secondo la quale classe politica e società civile sarebbero in contrapposizione dialettica. E la prima manderebbe in rovina la seconda. In una democrazia, meglio se del III millennio, questo giochino serve a poco.

Da una parte, i modi di selezione della classe politica si sono appiattiti nella richiesta di una cretinissima onestà, anzi honestà, da ultimi arrivati, dato che la competenza è sinonimo di malcostume e l’esperienza di marciume, dall’altra troviamo una borghesia utile solo a se stessa, bacchettona, riccastra, che non riconoscerebbe un filosofo tedesco tra venti greci, spocchiosa; una borghesia che gioca a condividere gli stessi valori traboccanti “realismo” di un putrido sottoproletariato, in nome del quale dichiara di “combattere”, avvalendosi di una identità ciabattona e libresca. Eccoli qui i catanesi. Meglio molto meglio i cosiddetti chic che la Catania “male” (cioè non quella bene”) la schifano e vanno dritti dritti per la loro strada, avendo casa a Roma, Milano, Parigi e… in altri siti.

Molti di loro sono realmente colti ma, come tutte le costruzioni in laboratorio, possiedono scarso carisma e, come un gas, tendono insopportabilmente a rendere gli effetti delle loro azioni limitanti (per gli altri) e illimitati (per loro), sostenuti dal ricordo di un sessantottismo globalizzato che ha messo a loro disposizione la patente morale di buoni tra i buoni. Sovente però sono più incapaci dei loro colleghi in giacca e cravatta. Le chiavi dei cassetti delle ermeneutiche “in ogni luogo” sono in mano loro, e agli altri restano solo briciole. Al di là di questa veloce classificazione null’altro c’è.

Né un’idea né un fatto clamoroso. Non si scrivono libri utili, non si leggono libri utili. Non ci sono idee e progetti per il futuro. Si naviga a vista, se proprio lo si deve fare. Di libri, il sindaco sospeso deve averne due dei miei, ma non mi ha mai chiesto nulla né lo avrebbe mai fatto; il presidente della regione credo non sia piu riuscito a trovare quello che – da saggista a saggista – gli avevo appositamente regalato con dedica. Qui si apre la questione della “famiglia”, la destra appunto non ha futuro ma solo ricordi, e se nei ricordi di certe scazzottature (per non dire altro…) tu non ci sei, non potrai mai entrare a far parte di quell’“esercito”, anche se a quel tempo leggevi Zolla e Principe. Rozzi e ignoranti: leggono i rimari da bancarella con Mussolini in copertina e non conoscono Mishima, si fanno le pippe con la Santanché e non conoscono Cristina Campo o la Zambrano. Dunque il funerale era per loro, e come ogni rito, il funerale, prevede un cambiamento di “stato”.

Uscendo da quella chiesa mi auguro che chi ha malgovernato questa città rendendola insicura (di solito, l’uomo di destra baratta la circolazione delle idee con la sicurezza, ma anche qui niente), sporca, incolta, vergognosamente ultima o penultima nelle classifiche nazionali, prenda atto dei fallimenti e abbandoni il potere, quel potere. Scusandosi. Io non potrò far altro che esprimere gratitudine per il senso di responsabilità. Ma l’addio c’è già stato, naturalmente.

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Benanti

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