Il Venerdì Santo della Repubblica


Pubblicato il 11 Aprile 2020

Il 3 novembre 1993, alle ore 22.30, le emittenti televisive interrompono la programmazione. L’edizione straordinaria allora era davvero così – una cosa fuori dall’ordinario. Era raro, perché il comune sentire imponeva parametri di gravità, limiti che non era facile superare. In quegli anni erano stati trucidati Falcone, Borsellino, e a maggio del ’93 c’era stata la strage dei Georgofili. Il clima era teso di suo, ancor di più nelle ultime settimane, perché il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, veniva tirato in ballo per alcuni fondi illeciti del Sisde, i servizi segreti civili. Si attendeva una notizia, che cioè l’ansia del filisteo, rimasto a casa per tutti gli anni Settanta, fosse finalmente stata placata manu militari.

Scalfaro ci fece sapere che non ci stava a quelle indiscrezioni di stampa. In sé la cosa era attendibile: chi, accusato, ci sta? Quello che però allora mise in imbarazzo anche la maggioranza che lo aveva eletto, era l’utilizzo a scopo personale (nel senso della propria difesa, seppur in campo politico) del mezzo televisivo, e soprattutto dell’emittente di Stato. E in un modo, poi, davvero inspiegabile: orario e metodi ben confezionati. Erano gli anni della polemica del Pds contro il conflitto di interessi di Berlusconi, e di una stampa che non perdonava al padron di Mediaset i discorsi divulgati tramite vhs (non c’erano ancora le dirette social). Allora fummo in tanti a non capire la gravità: secondo alcuni, fu allora che scivolammo, pian piano, verso una repubblica presidenziale, se non di forma, certamente di sostanza. Niente di grave, solo che non è la Repubblica voluta dai padri costituenti.

Il presidente del Consiglio ha preso, nuovamente, la parola. Ormai non si contano più le sue apparizioni, del resto esteticamente piacevoli: bell’uomo, bella giacca, bella cravatta. Tutto quello che serve per essere un bel politico. Conte ha preso la parola per farci sapere di altri venti giorni di quarantena. Il decreto è già firmato, e forse è questa la vera novità – un decreto firmato, prima che filmato. Ma è stata sempre l’emergenza a dettare i tempi, e l’emergenza fa saltare schemi: prima la televisione, l’atto catartico di un popolo che chiede sicurezza, amore, prosperità e salute. «Siamo in guerra», e in guerra, come in amore – l’amore di un padre premuroso che tiene la luce accesa del proprio studio, durante la notte, perché nessuno si senta solo – tutto è permesso. Poi, ha cominciato a parlare delle questioni inerenti al Mes.

L’unico passaggio degno di uno stato di diritto, è quando egli cita il Parlamento, presto, a suo dire, coinvolto nella discussione. Sì, siamo inguaribili liberali, e ciascuno ha il suo liberalismo, perché la libertà si declina in diversi modi, e c’è chi, ringraziando Iddio, la declina con la desinenza della persona. Sì, siamo compromessi con questo liberalismo di cui gente (ancora) libera dichiara la morte, mettendo in pentola a bollire gli ingredienti buoni per ricette già provate un centinaio di anni fa. 

Non ci si può però celare a lungo nell’atto di purificazione: redento e redentore devono guardarsi negli occhi. Inizia così al tredicesimo minuto l’annuncio della buona novella. Egli, il divino, diventa il capro espiatorio, mentre il peccatore che non accetta la redenzione è il capro emissario su cui deve identificarsi tutto il male. Il dito, allora, puntato verso lo schermo, lo addita, destinato al fuoco imperituro della Geenna. 

 Egli, Conte, non agisce «col favore delle tenebre», è stato negli Inferi, seppur per interposta persona (il ministro dell’economia Gualtieri). Tuttavia, in questa dura battaglia contro le forze del male, un male maggiore cova dentro le mura di Israele: «Io avevo chiesto all’opposizione di essere accumunati in questo senso di responsabilità: […] quelle falsità che sono state dette, che rischiano di indebolire non il premier Giuseppe Conte, non il governo, ma l’intera Italia, perché vi assicuro che è un negoziato difficilissimo». Il nemico ascolta, ed è questo il tempo in cui bisogna tacere. Verranno i momenti della polemica. Verranno. Per ora no. Siamo in emergenza.

Non so come reagirà il presidente della Repubblica. Quando si è in guerra, bisogna tralasciare tante cose, mettere da parte tanti formalismi, omettere tanti controlli. Né è dato sapere come reagirà la stampa: quella in collegamento non s’è scomposta. Ma si sa che in emergenza bisogna non mostrarsi schizzinosi, e le forme sono per palati fini: signori, la gente muore, e noi qui a discutere di formalismi?

Non so che diranno le opposizione. Da quando le idee non ci sono più – prima torturate dalle ideologie, e poi accomunate al destino di esse – tutto quello che si sente è chiacchiericcio, riflesso incondizionato davanti ai pixel della fama. Forse tacerà solo Forza Italia, e sulla forma e sul contenuto del discorso, e quel silenzio dirà più di quanto possa fare la più velenosa delle critiche. Gli altri, citati con «nomi e cognomi», lo invidieranno – già li sento invocare il contraddittorio -, quando dovrebbero semplicemente compiangerlo.

La teologia politica è un’arma pericolosa, perché è una lama a doppio taglio. Qualcuno dovrebbe ricordare a Giuseppe Conte che la settimana di passione è fatta da diversi giorni. C’è anche il sabato, in cui l’ennesimo Barabba, acclamato da folle sbrigative, trascorre onnipotente il suo giorno. Che, prima o poi, giunge al tramonto.

Antonio Giovanni Pesce.

 

 


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