Giustizia

In ricordo di Cesare Terranova, giudice che “sarà sempre ricordato almeno fin tanto che in questo Paese ci saranno dignitose coscienze”

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di iena Marco Pitrella

Il 25 settembre del 1979 Cesare Terranova veniva ucciso per mano della mafia; assieme a lui morì il maresciallo Lenin Mancuso, suo collaboratore più fidato.

Pubblichiamo un ricordo scritto da Marco Pitrella e letto in occasione dell’ultima edizione di

«Etnabook», il festival internazionale del libro che si è appena concluso a Catania.

A Palermo, nel colonnato situato tra il vecchio e il nuovo tribunale, si erge una scultura dedicata ai magistrati caduti nella lotta alla mafia: è «Piazza della Memoria».

In ogni gradino, d’ognuno di quei magistrati è inciso il nome: Paolo Borsellio, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rosario Livatino (il 21 settembre ricorre l’anniversario), Antonio Saetta, Alberto Giacomelli, Rocco Chinnici, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Gaetano Costa, Pietro Scaglione e Cesare Terranova; e proprio la storia di Cesare Terranova voglio ricordare.

Cesare Terranova, un uomo che «sarà sempre ricordato per essere stato implacabile e acuto nemico della mafia», un uomo che «sarà sempre ricordato almeno fin tanto che in questo Paese ci saranno dignitose coscienze», ebbe a scrivere Leonardo Sciascia che ne descrisse «il candore, la capacità di far tabula rasa di prevenzione e pregiudizi, la sua prontezza a cogliere, al di là delle apparenze gli elementi della verità. E credo che il sentimento in lui più forte fosse quello della compassione, nel senso più vero: di soffrire con altri, di soffrire con le vittime – di patire con quei che patiscono. Molti giudici si possono ricordare a misura di giustizia; ma pochissimi, credo, capaci di patire con quei che patiscono».

Entrato in magistratura nell’immediato dopoguerra, nel 1946, a 25 anni, era nato nel 21 a Petralia Sottana, dopo aver prestato servizio a Messina e provincia, nel 1958 approdò al tribunale di Palermo, ufficio istruzione.

A Palermo istruì i maggiori processi di mafia dell’epoca.

Erano gli anni della prima guerra di mafia, che vide da un lato i Greco di Ciaculli e dall’altro i La Barbera; con gli uni o con gli altri, Michele Cavataio, Luciano Liggio, Gaetano Badalamenti, Cesare Manzella, insomma i capi di Cosa nostra.

Guerra di mafia che ebbe il suo epilogo la mattina del 30 giugno del 1963, quando a Ciaculli, borgata di Palermo, persero la vita 7 uomini tra carabinieri, esercito e polizia, che erano lì per disinnescare un alfa romeo giulietta imbottita di esplosivo a seguito di una segnalazione.

Il processo, istruito da Terranova, vide 117 imputati e venne celebrato a Catanzaro per legittima suspicione nel 1965, tanto era la pura di minacce, attentati e intimidazioni.

In particolare, un passaggio dell’ordinanza di rinvio a giudizio rivelò tutta la lungimiranza del giudice che a suo tempo aveva capito quanto fosse stretto il nesso tra mafia e politica: «La mafia evita di opporsi apertamente ai poteri dello Stato, rifugge negli atteggiamenti decisi di ribellione e dalle manifestazioni eclatanti di violenza, tali da attirare l’attenzione delle autorità e della pubblica opinione. Essa vi ricorre, come estremo rimedio, solo quando vi è costretta da inderogabili esigenze di difesa o da indiscutibili motivi di sopravvivenza».

Per la fiducia che Terranova le seppe infondere, Serafina Battaglia, a cui era stato ammazzato prima il marito Stefano Leale, un mafioso, e dopo il figlio Salvatore Lupo, decise di collaborare, testimoniò sia al processo di Catanzaro che in altri; considerata la prima donna a collaborare con la giustizia, su Terranova non esitò ad affermare che di «giudice Terranova ce n’è solo uno sulla terra. Uno solo! Lo dico e lo firmo con il mio sangue».

Purtroppo, la maggior parte degli imputati al processo dei 117 vennero assolti «per insufficienza di prove», eccetto Torretta e La Barbera, condannati a 22 e 27 anni di carcere; Buscetta venne condannato in contumacia perché già fuggito in Brasile, come in contumacia verrà condannato Greco, entrambi a dieci anni.

Dopo quello «ai 117», altro importante processo che venne istruito da Terranova in quegli anni, fu quello contro la cosca di Corleone, «Luciano Liggio + 63», celebrato a Bari, sempre per legittima suspicione.

Ma a Bari andò peggio che a Catanzaro, perché le assoluzioni, sempre «per insufficienza di prove», riguardarono praticamente tutti; Riina fu condannato a una pena irrisoria per furto di patente, anche se, a dire il vero, in appello, Luciano Liggio fu riconosciuto colpevole dell’omicidio di Michele Navarra.

Navarra era un medico, padrino di quella generazione dei nati nei primi del novecento, tra i quali Calogero Vizzini o Giuseppe Genco Russo, fu colui che diede l’ordine proprio a Liggio di uccidere il 10 marzo del 1948 il sindacalista Placido Rizzotto.

Nel 1971, Terranova, lasciò Palermo e si trasferì per un breve periodo a Marsala a svolgere la funzione di procuratore della Repubblica; lì si occuperà del «mostro di Marsala», trovando il responsabile della morte di tre bambine.

È nel 1972, l’anno dopo, cominciò la seconda fase della vita del giudice Terranova, eletto deputato da indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, ruolo, quello di parlamentare, che ricoprì per due legislature, fino al 1979.

Emanuele Macaluso, storico dirigente comunista, anni dopo ricorderà come fosse stata la lettura della sentenza istruttoria del processo contro «i 117» a indurlo a proporgli la candidatura alla Camera: «per la prima volta con questa sentenza un magistrato ha indicato nel comune di Palermo il centro di interessi che alimenta la speculazione edilizia e mafiosa»; fra l’altro sono gli anni del «Sacco di Palermo», e delle 4mila licenze date da Vito Ciancimino.

Da magistrato a deputato, dunque.

Intervistato da «L’Ora» di Palermo, rispondendo alla domanda se si sentisse più o meno utile nelle visti di magistrato che, appunto, di deputato, rispose: «facendo parte di un organo collegiale il senso di responsabilità è meno incombente. C’è però da aggiungere che ora non si tratta più di casi particolari, ma di questioni di portata generale, attinenti alla vita di un’intera nazione. Sotto questo profilo il senso di responsabilità di far parte di un corpo legislativo è enorme».

Alla Camera, fu componente della commissione nazionale antimafia.

Stette accanto a Pio La Torre, segretario regionale del PCI, che verrà ucciso il 30 aprile del 1982; non esiterà a ribadire nuovamente il nesso mafia e politica: «per ridare fiducia nelle istituzioni è necessario l’allontanamento di tutti i posti di potere di tutti coloro che siano in qualche misura compromessi o invischiati con la mafia».

Tuttavia questa esperienza lo lasciò deluso, nonostante tutti gli sforzi fatti da lui e da La Torre. Sconfortato ammise: «non si è fatto nulla o quanto si è fatto è stato inutile».

Del resto, le proposte di alcuni componenti della Commissione erano alquanto stravaganti: c’era chi prospettava l’opportunità di allontanare dalle zone mafiose i magistrati siciliani e c’era chi prospettava l’esclusione dei parlamentari eletti nei collegi siciliani dalla commissione antimafia.

Per Terranova invece era tutt’altra la questione: «la mafia è allineata coi tempi … la più grossa connotazione che io darei alla mafia di oggi è quella degli appalti. L’appalto delle opere pubbliche – e non tanto l’appalto vero e proprio ma tutto quanto c’è dietro è certamente è l’argomento più interessante. Destinato a svilupparsi ancora di più negli anni futuri», dichiarò al «Diario» nel settembre del 1979.

Nel frattempo, nel giugno del 1979 era rientrato in magistratura, a Palermo, ufficio istruzione, nonostante nella primavera del 1978, Giuseppe Di Cristina, boss di Riesi, poco prima di essere egli stesso ammazzato, aveva confidato alle forze dell’ordine l’intenzione di Liggio, di evadere in occasione del suo prossimo viaggio a Palermo per un processo che lo riguardava e di uccidere Terranova.

Al «Giornale di Sicilia», Terranova sarcastico disse: «Paura, io? No. Nella peggiore delle ipotesi mi possono ammazzare».

Cosa che appunto avvenne a Palermo una mattina del 25 settembre del 1979; assieme a lui fu ucciso il maresciallo Lenin Mancuso, suo collaboratore più fidato: e «fin tanto che in questo Paese ci saranno dignitose coscienze», Cesare Terranova «sarà sempre ricordato».

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Marco Pitrella

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