di Marco Iacona
Da generazioni oramai, la destra catanese finge di non conoscere la città che occupa. I “cugini” di sinistra, invece, la frequentano per preclaro giudizio altrui. Ed è allo stesso tempo un debole paradosso e un sollievo. La “destra” e la città dovrebbero essere giudicate immagini da figura retorica; pur tuttavia, Catania se la conosci (bene) la eviti.
Epperò, i catanesi di destra vivono lo spazio urbano a modo loro, onorando una fantomatica “terza via” e portando al desco scarne fenomenologie precorrenti risibili scene di protesta; un occasionale esibirsi di dubitabile valenza sociale, più per istinto “identitario” che per vena costruttiva.
Accontentandosi di briciole e di una carezzina, un mese sì l’altro no, in base all’assunto che Mussolini abbia inondato lo Stivale di “cose buone”, gli elefantini neri impiegano il sale della metafisica per fascistizzare la città (e il mondo) ovvero, che è lo stesso, per catanesizzare secondo l’ordinario storytelling un fascismo a un tempo storico e metastorico. Raccontano a se stessi una favoletta straboccante pathos, la cui trama “almirantiana”, sfiora le vette d’un meraviglioso di tradizione “orale”; uno straordinario, si badi bene, appena percepibile perché raffigurabile solo in un’astratta dimensionalità.
Destra (o fascismo, se ne è luccicante sinonimo) e Catania rappresenterebbero il “meglio” nei domini (tutti!) dell’umano agitarsi: spiritualmente e materialmente, storicamente e geograficamente, ideologicamente e se, occorre, sperimentalmente. Ove “meglio” sta per qualcosa di filosoficamente intuibile ma, ovviamente, poco o punto narrabile.
Una cosa è chiara, però, almeno a chi scrive. I catanesi, anche i più giovani, scommettono sui loro difetti – untuosa artificialità e sgradevole energia devozionale – per facilitare i legami con gli abitanti dei più umili quartieri. Nell’azione di un dislagare sacro e costante andrebbero a confluire “ragioni” di contrastante natura. Abitudini secondo tradizione, vena “interclassista”, “obblighi” (e interessi) professionali, ignoranza in casi come questo del tutto “autentica”. Nella seconda delle quattro si ritroverebbero, come ciascuno sa, convinzioni politiche alla base di un’imprecisata dottrina. Secondo questa, le differenze di ceto non dovrebbero scatenare conflitto alcuno, al più esser ragione di combinazione.
“Zaurdi” dunque? Lingue greca, latina e spagnola (scrivono i più informati), per indicare il reciproco di un Gentleman, uomo di cui sapete: grezzo ed anche temibile; ché se la città occorre vivere – qualunque sia il τέλος – altro non rimane se non farsene parte necessaria pur essendo le risultanze – tragicamente, empiricamente – sotto gli occhi di pochi consapevoli. Il tutto, vuoi mettere?, al netto anche dell’estrazione sociale del succitato destrino.
Raccontano i più informati che distinguendo le fasce per diacronia, solo recentemente la destra sia riuscita ad intruppare – soprattutto tra i militanti – elementi che avessero una minima confidenza con i libri, non dico dei “quadri” idealistici di Hegel ma, se non altro, delle carezze pedagogiche di un Edmondo De Amicis.
La destra non legge, ma dice. Ama l’opinione, non conosce i fatti. Pensa male ma pensa, agisce male ma agisce. Prendi Augusto Del Noce, Elémire Zolla, lo stesso Armando Plebe. Inizi anni Settanta, decisivi per la formazione di una coscienza “conservatrice” che tuttavia rimarrà “in bozza”. Prendi Christian Raimo, Michela Murgia, Francesco Filippi, lo stesso Umberto Eco, che fascistizzano lo spazio-tempo ed emettono sentenze inappellabili. Non una parola, non un aggettivo. Non dico Guénon o De Felice – che Francesco Geminario giudicava quasi estraneo al neofascismo –, neanche il più moderno Emilio Gentile, neanche un romanzo sui mondiali dell’82. Immaginiamo cosa accadrebbe, qualora capitombolasse sulle pagine del solitario Arpino.
La sinistra, che a Catania è vera destra per atteggiamenti e comportamenti “nel ruolo” ha innalzato sanissimi muri tra sé e il contadinume inurbato, utilizzando con sana ipocrisia i ceti bassi come misericordioso orizzonte d’ispirazione. La destra, straconvinta che con i poveri di spirito possa fare buoni affari, raccattando voti, consensi e quant’altro, con le guance malrasate “mette su famiglia” accogliendo “valori” (più per sconoscenza di se stessa che per altro), genericamente e geneticamente “pre-moderni”, primitivi e primitivisti. Onore, fedeltà, strette di mano e bla bla bla.
La risultante, in classifica tra i demoralizzanti, è il “tipo” della destra attuale miseramente prescindente dall’epocale Res Cogitans. Vuoi perché non pensante, vuoi perché non adatto, disavvezzo all’“abuso” del pensiero.
Al destrino non pensante, ignorante per se stesso, mancheranno gli strumenti di natura gnoseologica supplendo, egli e a suo modo, con perniciosi sbalzi di emotività che ne renderanno minacciosa e inavvicinabile la figura. Il destrino commerciante di se stesso e d’altra “roba”, non si avvarrà invece delle tecniche del pensare perché ignaro della forza delle idee, nella loro profondità disvelante o, al più, non riconoscendole idonee a mille e mille costruende, dichiarate, attività. Immerso nella palude insalubre di un ignorantismo valoriale, in via del tutto esclusiva, egli coltiverà il proprio sé nel grigiore di un tradizionalismo nato strambo.
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