“L’isola della libertà”: il racconto cinematografico di un’utopia della libertà

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di GianMaria Tesei

Un’utopia degli anni ’60, non ideologica ma fatta di voglia di costruire un mondo a parte, una realtà diversa fondata su un forte concetto libertario costituisce la base della nuova pellicola di Sydney Sibilia intitolata “L’isola delle rose” e che vedremo a partire dal 9 dicembre distribuito ad opera di Netflix.

Il racconto filmico si basa su una storia vera, obliata per parecchi decenni e riemersa nell’interesse generale intorno ai primi anni del 2000, che trae le sue origini dal concepimento intellettuale e razionale di Giorgio Rosa, un giovane ingegnere, consulente ed insegnante bolognese, il quale dal 1958 al 1968 progetta, attuando il suo intento a partire dal primo maggio proprio del 1968 , di creare “L’isola delle Rose”( il cui nome ufficiale era Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose ) ossia una sorta di stato indipendente o più propriamente una micronazione, a circa 11 chilometri dalla costa riminese, appena dentro la zona delle acque internazionali, situata su una piattaforma artificiale di appena 400 metri quadrati, con tanto di governo, inno(Steuermann! Laß die Wacht!), moneta (il Milo) e lingua (esperanto che rende il nome dello staterello in Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj) ufficiali.

L’isoletta artificiale destò l’attenzione generale, tanto da diventare argomento affrontato e dibattuto in seno alle Nazioni Unite ed al Consiglio d’Europa e tanto da divenire meta di turismo internazionale per la sua peculiare unicità e luogo per il quale si richiedeva la cittadinanza. Ma le prime avvisaglie concrete di opposizione a questa nuova realtà si videro ben presto quando una nave della Guardia Costiera perlustrò la struttura d’acciaio, andandosene perché non venne trovata una stazione radio che si presumeva si trovasse in quel luogo con lo scopo di perorare la causa della micronazione contro lo Stato italiano. Uno Stato italiano che inoltre supponeva un tentativo di utilizzo della stessa piattaforma a fini turistici senza pagare le relative tasse.

Circa dieci navi pilota di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza ,il 25 giugno del 1968, dopo cinquantacinque giorni dalla dichiarazione di indipendenza dell’ Isola delle Rose, diedero fine a questa esperienza unica ( con la distruzione del febbraio del 1969) realizzata da un ingegnere nerd che nel film di Sibilia è interpretato da un grande( del resto come sempre) Elio Germano, il quale ha affermato come a sospingere Giorgio Rosa, così ha colto discorrendo con chi prese parte a quell’avventura, fosse una grande voglia di affermarsi con le proprie forze, quasi gareggiando con i suoi contemporanei a fare le cose più particolari e senza omologarsi come invece spesso accade attualmente. Ad impersonare gli altri protagonisti di questa particolare vicenda sono Matilda De Angelis che dà vita a Gabriella, avvocato di diritto internazionale e futura coniuge di Giorgio Rosa; Leonardo Lidi, nella pellicola Maurizio Orlandini, grande amico del Rosa. E poi ancora Fabrizio Bentivoglio che incarna Franco Restivo, Luca Zingaretti che fa vivere cinematograficamente Giovanni Leone, François Cluzet che interpreta il naufrago Jean Baptiste, Toma’Tom Wlaschiha che rende W. R. Neumann e Violetta Zironi nei panni di una post-teenager in cerca di occupazione, tutti ben diretti in una pellicola dalla genesi particolare, come ha detto lo stesso regista Sydey Sibilia.

Il director salernitano, giunto all’undicesima regia di lungometraggi si è imbattuto in questa storia particolare quasi casualmente, facendosene ammaliare profondamente ed innamorandosene quando, come ha sostenuto il regista, che , come ha detto egli stesso, agisce quasi come un rabdomante con il bastoncino in cerca di idee, ha veduto la dicitura Isola delle rose, micronazione, tenendo aperte alcune finestre di Wikipedia, per fare per ricerche atte proprio a suggerire elementi necessari a completare la stesura dei testi nel periodo di scrittura delle sceneggiature del secondo e terzo capitolo della trilogia di “Smetto quando voglio”, ossia “Smetto quando voglio – Masterclass” e “Smetto quando voglio – Ad honorem” (entrambi del 2017),

Scorrendo la storia narrata in quella pagina di Wikipedia, lo sceneggiatore campano, ha scoperto una storia inimmaginabile e straordinaria, chiedendosi come mai non avesse ancora ispirato la realizzazione di un prodotto del piccolo o del grande schermo. La particolare fascinazione che ha suscitato la narrazione in Sibilia e nella sua co-sceneggiatrice Francesca Manieri ha fatto scattare sin da subito la scintilla creativa, supponendo che il film fosse già ben definito nelle linee generali, quando invece la redazione ha richiesto un anno e mezzo di lavoro da parte dei due scenaristi.

Francesca Manieri, che aveva già precedentemente collaborato ( per “Veloce come il vento”, nel 2016 e per “Il Primo Re”, nel 2019) anche con il regista Matteo Rovere, socio assieme proprio a Sibilia della Groenlandia Srl, la società di produzione indipendente, nata nel 2014, che ha realizzato questo lungometraggio, ha asserito come vi fosse nella trama un potente aspetto autoriale presente in due concetti contrapposti quali quello della libertà del singolo e quello della libertà generale ed inoltre come fosse particolare fare un film in cui chi si contrapponeva al protagonista erano dei membri dell’entourage di Aldo Moro o dei padri costituenti della Repubblica italiana quali Giovanni Leone e Franco Restivo.

Come ha evidenziato Matteo Rovere, la collaborazione con Netflix ha dato un afflato internazionale, girando negli immensi studios, che si trovano interamente in acqua, di una infinity pool di Malta. E solo una strada tortuosa, ma resa più agevole da questa particolare location e dal sapiente uso degli effetti speciali potevano rendere al meglio una storia che canta la libertà e la creatività propronendola nel tempo attuale in cui l’appiattimento generale ottunde le menti e l’animo umano.

 

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