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Mafiosi e trafficanti scarcerati: una catena di errori e durissime polemiche
Pubblicato il 24 Giugno 2020
di Lella Battiato Majorana
È di questi giorni una nuova serie di polemiche sulle facilitazioni delle scarcerazioni, rinfocolata dall’ultima scarcerazione per decorrenza termini di Carminati, anima nera della “banda della Magliana”.
Alle nuove regole per fermare i provvedimenti di scarcerazione dei boss, detenuti in alta sicurezza o al 41 bis., si aggiunge la bufera di alcune settimane fa dopo la lista di 376 esponenti della criminalità organizzata che hanno ottenuto i “domiciliari” tra cui Pasquale Zagaria, boss del clan di Casalesi.
Tanta confusione tra le scarcerazioni Carminati/Zagaria, che si intrecciano al malfunzionamento della giustizia e a un sistema giudiziario che potrebbe risultare pericoloso.
Il Cdm ha approvato il 21 marzo 2020 il dl di Bonafede, 4 articoli in tutto, in merito alla concessione dei domiciliari per coronavirus, sottoposta a valutazione del magistrato di sorveglianza entro 15 giorni con cadenza mensile, alla luce del nuovo quadro dell’emergenza Covid.
La lettera che ha innescato la scintilla: la circolare DAP firmata da Assunta Borzacchiello, direttore Cerimoniale relazioni esterne ufficio Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, per conto del Direttore Generale detenuti e trattamento Giulio Romano, per cui è stata audita in Commissione Antimafia.
La valutazione delle scarcerazioni può esser effettuata subito, prima della decorrenza dei termini, “nel caso in cui il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena”, il provvedimento è immediatamente esecutivo.
Sulla scarcerazione dei boss e chiarimenti giuridici, argomento che porta a notevoli riflessioni, ha rilasciato un’interessante intervista, grazie all’esperienza, il presidente del Gip, Nunzio Sarpietro.
Giovanissimo, inizia la carriera in magistratura al Tribunale di Caltagirone, Distretto di Catania e, dopo l’entrata in vigore della legge “Rognoni – La Torre”, che introduce nel diritto penale italiano il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, presiede per la prima volta in Italia un processo contro la mafia, pervenendo ad una sentenza di condanna.
Da allora, si è ininterrottamente occupato di mafia, raggiungendo una specializzazione di grande profilo, che ha utilizzato in numerose inchieste nelle sedi giudiziarie di Catania e al Tribunale di Trieste, ricoprendo la carica di Presidente Aggiunto della Sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari, dal 2013 presidente del Gip del Tribunale di Catania, istruendo importanti processi.
Esperto in diritto amministrativo, riesce a leggere e decifrare con grande padronanza le complesse procedure alla base dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, ponendosi come uno dei protagonisti negli anni Novanta nella sede siciliana della cosiddetta tangentopoli.
INTERVISTA
D. Ha emesso tante condanne. Alla luce della sua esperienza, queste scarcerazioni di feroci delinquenti condannati per reati gravissimi hanno ferito fortemente l’opinione pubblica; e forse non sono state forse ricordate le vittime di questi eccidi?
R. La reazione dell’opinione pubblica è veramente legittima, anche se c’è da dire che la magistratura di sorveglianza ha semplicemente osservato la legge vigente; salvo poi la correzione in corso d’opera con l’ultimo dl che ha riportato in carcere molti di questi criminali. La legge poteva essere fatta prima. Purtroppo il nostro ordinamento penitenziario privilegia il profilo della rieducazione piuttosto che quello della sanzione.
Nel nostro sistema la vittima del reato viene sostanzialmente dimenticata e, quindi, l’opinione pubblica non può giustificare questa scarcerazioni facili. C’è da dire anche che negli ultimi anni, proprio per la carenza di strutture carcerarie idonee, è stata data una netta prevalenza alla misura degli arresti domiciliari che a quella in carcere.
D. Può spiegare la differenza tra la scarcerazione per decorrenza termini di Carminati e la scarcerazione dei boss mafiosi come Zagaria?
R. La decorrenza dei termini di custodia cautelare significa che non è stata emessa una sentenza definitiva entro il periodo prescritto dal codice di rito.
Nel caso delle scarcerazioni dei boss in regime di alta sorveglianza o in regime di art. 41 bis si applica la disciplina della incompatibilità del sistema carcerario con le condizioni di salute del detenuto. Sono due cose del tutto diverse.
D. Presidente, alcuni errori si potevano evitare? Forse il decreto Bonafede non ha calcolato i rischi?La circolare doveva essere prima inviata al ministro e poi firmata?
R. Io credo che la pandemia abbia creato grossi problemi a tutti i livelli ed è per questo che ci siamo trovati impreparati alle vicende carcerarie, anche a causa del sovraffollamento.
Certo, si poteva stare più attenti.
D. Se aumenta la delinquenza abbiamo bisogno di più carceri?
R. Certamente sì, più sono i soggetti che delinquono nella lotta alla mafia, sia pure con alti e bassi, più strutture detentive sono necessarie. Oggi credo che siamo in un periodo di contrasto alla mafia, non così forte come negli anni passati, soprattutto per carenza di mezzi e di uomini.
D. Perché questa attenuazione oggi del regime del 41 bis?
R. Il sistema del 41 bis è uno strumento che si è rivelato molto efficace nella lotta contro la mafia, si tratta però di applicarlo in maniera molto rigorosa nelle strutture carcerarie, altrimenti si rischia una vanificazione della validità dello strumento stesso. Occorre che le strutture carcerarie siano adeguate al rispetto dello spazio vitale per i singoli carcerati, ai quali assicurare anche un’adeguata protezione sanitaria.
D. Ha celebrato il primo processo di mafia in Italia. A che punto è la lotta alla mafia?
R. È vero che nel lontano 1985 ho presieduto il Tribunale di Caltagirone per decidere per la prima volta le problematiche riguardanti l’art. 416 bis del codice penale, introdotto nell’Ordinamento nel 1982, processando sedici affiliati al clan Santapaola-Ercolano. Da allora è stata fatta molta strada. Però, oggi si può parlare di una certa attenuazione di questo sistema. Si deve piuttosto verificare, se la sua applicazione concreta è effettuata in maniera rigorosa e senza crepe.
D. Come si risolve la diatriba tra tribunale dei diritti dell’uomo e 41 bis?
R. Contrastare la mafia significa contemperare i valori costituzionali con le necessità di sicurezza della società civile. Se un soggetto è altamente pericoloso è chiaro che lo Stato si deve difendere affinché non possa più nuocere alla società, e quindi le restrizioni determinate dall’applicazione dell’art. 41 bis servono a questo e non a duplicare la sanzione nei confronti del soggetto interessato. A livello europeo, nella maggior parte dei Paesi non è previsto un delitto come il nostro 416 bis, quindi viene in qualche modo criticato, a parer mio sbagliando perché il sistema mafioso non è una realtà solo italiana. È illusorio che alcuni paesi, dell’Ue e non, si ritengono immuni da questo virus. Questi paesi stanno commettendo lo stesso errore italiano, quando si diceva, come a Catania negli anni ’80, che la mafia non esisteva.
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