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Mario Ciancio e la mafia: misure di prevenzione, un processo “a velocità Formula Uno” per l’editore
Pubblicato il 05 Dicembre 2018
Iena giudiziaria (presso il “G.P.di Catania”) Marco Benanti
Prossima udienza il 15 gennaio, ma già il 12 marzo è prevista la discussione, su indicazione del Presidente del collegio Dorotea Quartararo (che giudica con i colleghi Antonino Fallone e Antongiulio Maggiore che ha fatto la relazione): l’appello delle misure di prevenzione per l’editore Mario Ciancio è la dimostrazione che la giustizia in Italia è rapida ed efficiente.
A settembre era arrivato il decreto di sequestro e confisca del Tribunale: in due mesi è stata fissata l’udienza d’appello. Ieri, alla prima udienza, in meno di due ore si è avuto già un primo quadro della velocità del processo: niente male, nei corridoi si pronostica di un verdetto già a giugno prossimo. E voi che vi lamentate della lentezza della giustizia italiana? I soliti disfattisti.
Dall’udienza di ieri sono venute fuori le parole del collaborante Francesco Squillaci: ha raccontato ai magistrati di un finto attentato, ad inizio anni novanta, a Mario Ciancio. Perchè? “Per farlo passare come vittima”, anche viste le attenzioni, almeno secondo il pentito, della magistratura su di lui. Insomma, Ciancio antesignano dei metodi di certa antimafia coreografica di questi tempi di plastica e propaganda? Chissà.
Dall’accusa, con il Pm Antonino Fanara (procuratore generale applicato) e Miriam Cantone (della Procura Generale) è arrivata anche la richiesta di un approfondimento contabile sul 1974 e sul 1975. Dalla Difesa si è chiesto il rigetto: di fronte ad investimenti miliardari, che nessuno si ricorda che la mafia catanese negli anni ’70 si occupava di contrabbando?
Ma, aggiungiamo noi, al capomafia di allora, Giuseppe Calderone si può legare solo questa attività?
“…Il fratello di Calderone, Giuseppe, venne ucciso nel 1978 a Catania alle prime avvisaglie di guerra. Giuseppe, detto «Cannarozzu d’ argento» («Gola d’argento»), ucciso nel 1978, che oltre a rappresentare sotto l’Etna la Commissione aveva, tra l’ altro garantito la latitanza di Luciano Liggio, negli anni Settanta, in provincia di Catania, a Vaccarizzo, dove la polizia scoprì, quando già il boss corleonese era riparato al Nord, una villa fortificata, con annessa una «prigione», in previsione di alcuni sequestri di persona in progetto nel catanese...”(La Stampa, “Morto Calderone, boss di mafia pentito”)
“…Lontani i tempi in cui uccideva senza pietà il capo storico della mafia catanese Giuseppe Calderone, che il 27 ottobre 1962, secondo il racconto di Tommaso Buscetta, sabotò l’aereo dell’allora presidente dell’Eni, Enrico Mattei, su incarico delle “Sette sorelle” (le più importanti compagnie petrolifere internazionali, danneggiate dalla politica di Mattei), del successore di Enrico, Eugenio Cefis, assieme ai servizi segreti francesi e americani e ai mafiosi Giuseppe Di Cristina e Stefano Bontate, massoni e amici dei più importanti politici siciliani di allora. Poche ore dopo, l’areo privato di Mattei esplose in volo: di lui e degli altri due passeggeri, il pilota Imerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale, si trovarono soltanto quattro ossa sparse nel raggio di qualche chilometro. Per quarant’anni la versione ufficiale parlò di “cause accidentali”. Solo dopo le dichiarazioni di Buscetta e le nuove indagini aperte dalla Procura della Repubblica di Pavia è stato accertato che il velivolo esplose in volo per via di un ordigno collocato a bordo. Che c’entra Santapaola con Calderone e con Mattei? C’entra!…”(http://www.linformazione.eu/2017/11/e-il-catanese-santapaola-il-successore-di-riina/).
Insomma, storie di contrabbando.
Abbiate fiducia nella giustizia. E basta con il disfattismo.
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