Mussolini e le donne: a proposito di “cose buone” e affini


Pubblicato il 30 Novembre 2020

L’interpretazione dei fatti passati soggiace alle correnti storiografiche che sovente sono influenzate dalle vulgate ideologiche. Mentre poi vi sono fatti inappuntabili e evidenti su cui c’è poco da eccepire. Vi è stata soprattutto in questo ultimo ventennio una corrente revisionista dell’altro celebre ventennio che si opponeva agli storici di scuola marxista e che ha sostenuto con supponenza e vanagloria che il “fascismo ha fatto anche cose buone”. Naturalmente una dittatura che è durata tanto tempo ci mancherebbe con i poteri assoluti detenuti se non avesse fatto qualcosa di positivo ma, certamente, non è stato sulla parità tra uomo e donna dove il fascismo si distinse a marcare la visione profondamente sessista, differenzialista, retrograda e reazionaria.
Basta ricordare appunto la legge del 20 gennaio ’27, approvata dal governo fascista che ridusse  i salari delle donne della metà rispetto agli uomini. Ecco un esempio che dovrebbe farci riflettere molto sulle difficoltà improbe che ha dovuto superare la lotta per l’emancipazione femminile e la parità di genere. Vi fu una cultura della disparità e dell’inferiorita’ della donna espressa con evidente cinica chiarezza da  Ferdinando Loffredo nella sua Politica della famiglia (1938): “La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito […]
La conseguenza dell’emancipazione culturale – anche nella cultura universitaria – porta a che sia impossibile che le idee acquisite permangano se la donna non trova un marito assai più colto di lei . […] deve diventare oggetto di disapprovazione, la donna che lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, che in promiscuità con l’uomo gira per le strade, sui tram, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici […] Il lavoro femminile […] crea nel contempo due danni: la «mascolinizzazione» della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito […]; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe”.
Le stesse cose affermò Benito Mussolini su Il Popolo d’Italia il 31 agosto 1934 : “L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbero di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale”. Alla donna spettava di essere relegata in casa alad essere nutrice e allevare i figli per il bene della Nazione. Già prima venne approvato il Regio Decreto 2480 del 9 dicembre 1926  in cui le donne saranno escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, sarà impedito di insegnare alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, si proibi loro di essere nominate dirigenti o presidi di istituto con un altro  Regio Decreto 1054 del 6 maggio, la Riforma Gentile  che vieto’alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie. 
Furono persino  raddoppiate le tasse scolastiche per scoraggiare le studentesse di  proseguire gli studi e impedire alle famiglie di mantenerle a scuola. Vi fu una legge del 1934 (legge 221) che limitò in modo considerevole le assunzioni femminili, stabilendo nei bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti, anzi si fece un decreto legge del 5 settembre 1938 che fissò un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati.
Ma non fini qui vi fu anche  il Regio Decreto n. 989/1939 che indicò  addirittura gli impieghi statali che  potevano  essere assegnati alle donne. In tal modo i lavori che si autorizzarono furono :servizi di dattilografia, telefonia, stenografia, servizi di raccolta e prima elaborazione di dati statistici; servizi di formazione e tenuta di schedari; servizi di lavorazione, stamperia, verifica, classificazione, contazione e controllo dei biglietti di Stato e di banca, servizi di biblioteca e di segreteria dei Regi istituti medi di istruzione classica e magistrale; servizi delle addette a speciali lavorazioni presso la Regia zecca. L’articolo 4 della stessa legge, suggerì altri impieghi “particolarmente adatti” alle donne: annunciatrici addette alle stazioni radiofoniche; cassiere  in aziende con meno di 10 impiegati ; addette alla vendita di articoli di abbigliamento femminile, articoli di abbigliamento infantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, giocattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori, articoli sanitari e femminili, macchine da cucire; addette agli spacci rurali cooperativi dei prodotti dell’alimentazione, limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati; sorveglianti negli allevamenti bacologici ed avicoli; direttrici dei laboratori di moda.
Giovanni Gentile affermò ne La donna nella coscienza moderna (1934): “La donna non desidera più i diritti per cui lottava […] (si torna) alla sana concezione della donna che è donna e non è uomo, col suo limite e quindi col suo valore […]. Nella famiglia la donna è del marito, ed è quel che è in quanto è di lui”.Forse è meglio rispolverare la memoria a chi fa finta di non sapere le cose o meglio ancora non le sa proprio.
Rosario Sorace.
 
 
 
 
 

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