Assolto perché il fatto non sussiste: dopo soltanto nove anni (sic!) finisce “l’inferno” in cui era piombato Giuseppe Migliazzo, un giovane di Motta Sant’Anastasia, accusato dalla moglie di una serie di gravi reati. Peccato che per il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Catania, presieduto da Paolo Corda, Migliazzo è innocente. Fine della storia? Forse per la macchina giudiziaria: restano, però, gli anni in cui Migliazzo in paese era additato quasi alla stregua di un “orco”, gli anni dell’emarginazione sociale, dei clienti che scompaiono magicamente dal suo bar ed egli è costretto a chiuderlo. Insomma, gli anni che nessuno gli potrà restituire: del resto, è quantificabile una vita distrutta o quasi da accuse rivelatesi infondate? Ci vuole fegato, forse, magari per talune donne (talora spalleggiate da tutto un mondo di “presunti alternativi”) è tutto alquanto semplice. Magari non sarà il caso della consorte di questa persona, ma la sua storia ripropone la questione dell’effetto della macchina giudiziaria sugli esseri umani. Eppure, conosciamo ferventi cattolici, magari con la toga addosso ogni giorno, per i quali viene prima che la procedura di legge vada avanti, nella sua correttezza, dicono. Cattolici doc, cattolici italiani.
La vicenda conclusasi con la sentenza di assoluzione ha visto anche le ragioni del Pm Martina Nunziatina Bonfiglio, che aveva chiesto soltanto sei anni e due mesi e la Difesa con l’avv. Antonio Patti che ha combattuto per anni per fare emergere l’innocenza del suo assistito, in mezzo a collegi che sono cambiati più volte (a proposito: ma i garantisti non hanno niente da dire su questo tema?), fino ad avere, nella fase della discussione, uno scontro dialettico con il Piemme sulla ricostruzione della vicenda. Nella prospettazione della Difesa, infatti, il Pm avrebbe messo in rilievo solo alcuni passaggi “pro-accusa” delle testimonianze, minimizzando o dimenticando quelli in cui le stesse si smentivano o addirittura avrebbero ammesso il falso! L’avv. Patti ha, fra l’altro, ricordato che la Procura deve cercare anche elementi a favore dell’indagato (come prevede il codice di procedura penale, in un articolo che nei tribunali italiani è piuttosto un “ufo” che una realtà giuridica viva).
Chi ripagherà questa persona del dolore di anni? Quanto vale una vita finita nel “tritacarne” della macchina giudiziaria italiana tanto cara –giustamente a parer nostro- della sinistra italiana e della brava borghesia che ne incarna perfettamente lo spirito e l’anima? Anche cattolica, s’intende.
Iena Marco Benanti.
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