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Pippo Fava, un pentito, la stampa di città, quel palazzo di cosiddetta giustizia…
Pubblicato il 05 Gennaio 2012
di Memoria d’Elefante, Marco Benanti
Ventotto anni sono passati dall’omicidio di Pippo Fava (nella foto). Attorno alla sua figura e alla sua morte si è visto il meglio e il peggio di Catania. In particolare, per quel che avvenne dopo il delitto.
Tratto da “La mafia comanda a Catania 1960/1991” (Claudio Fava, 1991), vi riportiamo un episodio emblematico, uno spaccato tutto catanese, c’è di tutto e di più. Siamo nell’estate del 1984: il punto di partenza è un pentito, Luciano Grasso che vuole parlare di Catania. E soprattutto del delitto Fava. Si trova in carcere, a Belluno….. Ecco quel che scrisse nel suo libro Claudio Fava, figlio del giornalista brutalmente ucciso:
“…Il 17 luglio il sostituto Giuseppe Torresi parte per il Veneto. E’ una missione riservata, ne sono a conoscenza solo altri due giudici, il procuratore aggiunto Di Natale ed il procuratore generale Di Cataldo. Occorre agire in fretta e con discrezione: Grasso non ha ancora messo a verbale le proprie dichiarazioni, potrebbe avere paura, rifiutarsi di parlare. La mattina dopo, quando Torresi entra nel carcere di Belluno, Luciano Grasso ha già ricevuto in omaggio una copia de ‘La Sicilia’ fresca di stampa. C’è la sua foto, quattro colonne di articolo e un titolo che non lascia dubbi: ‘Un detenuto pentito svelerà i nomi degli uccisori di Fava’. Un piccolo capolavoro, a firma di Asciolla.
Era già capitato, piuttosto di rado, che un giornale fornisse qualche indiscrezione sulla deposizione di un pentito: ma naturalmente dopo l’interrogatorio. Per la prima volta in Italia, invece, un giornale aveva anticipato le rivelazioni bruciando sul tempo perfino il magistrato che era stato incaricato di raccogliere quella deposizione. Ma Asciolla aveva fatto di più: si era procurato la foto di Luciano Grasso, aveva indicato il carcere in cui il pentito si trovava detenuto, aveva pubblicato persino l’indirizzo della sua famiglia. Delle due, l’una: un’imperdonabile scorrettezza giornalistica e una clamorosa violazione del segreto istruttorio; oppure un maldestro, plateale tentativo di intimidire quel testimone.
Né l’una né l’altra, concluderà il giudice Giuseppe Gennaro due anni più tardi, chiedendo l’archiviazione del procedimento a carico di Asciolla e del suo direttore Ciancio con una sentenza di ‘non luogo a procedere’. La violazione del segreto istruttorio, spiega il giudice nella sua richiesta, è stata commessa da chi ha passato l’informazione al giornalista. Il cronista de ‘La Sicilia’ non c’entra, lui s’è limitato a fare il suo mestiere, il suo piccolo scoop…”Alla fine Grasso non fu creduto.
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