Politica all’italiana: scampato pericolo?

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di Carlo Majorana Gravina

Premetto: dicesi tafanario il deretano di bestie e somari, in quanto attrattivo di mosche e tafani.

I cittadini italiani che hanno inteso esprimersi nei confronti del quesito referendario costituzionale, hanno evitato che la Carta Costituzionale del 1947, alleggerita e sgualcita, diventasse carta igienica ad uso e consumo dei tafanari di governi avventurosi e governanti avventurieri.

Intendiamoci, ogni persona di buon senso capisce che occorre aggiornare e migliorare le Istituzioni pubbliche italiane, ma non si possono accettare i colpi di mano. Per quale ragione il rottamatore se l’è presa con una Costituzione peraltro mai applicata appieno? Certo, a 69 anni dalla sua approvazione, la chiosa suona utopica o romantica; eppure onestà intellettuale e morale (valori forse definitivamente evaporati in queste sedi) avrebbero dovuto orientare altrimenti Governo e Parlamento.

Leggendo l’articolato licenziato a colpi di fiducia, poi sottoposto a quesito referendario costituzionale, mi sovvenne un inquietante paragone: Mussolini ottenne e sfruttò la moral suasion del Parlamento, sostanziata con l’Aventino, per varare le cosiddette leggi fascistissime; Renzi, che già all’inizio della sua avventura governativa usava toni che riecheggiavano il tristemente famoso “di questo luogo avrei potuto fare bivacco di manipoli”, in mancanza di un nuovo Aventino, attraverso una sedicente “riforma costituzionale” sbagliata nel merito e nel metodo, scaturita da insipienza, ignoranza, disprezzo per democrazia e popolo italiano. Riformando qua e là alcuni articoli, il giovanottino si dava mano libera, in combinato disposto con la spocchiosa Boschi.

Ma, aldilà delle analisi, il Presidente della Repubblica non avrebbe dovuto emanare il decreto che indiceva il referendum: per errato quesito, perché un tempo fu associato di diritto pubblico al culmine di un modesto percorso accademico e dal 2011 Giudice Costituzionale, ovvero per formazione, cultura e storia professionale. I ricorsi sul referendum (merito) e sulla campagna di disinformazione ordita (metodo), non sono stati accolti perché le magistrature adite, definitivamente partigiane, evitando di pronunciarsi ricorrendo ad escamotages,si sono appropriate del motto del bancario: meglio rosso di vergogna che giallo di bile.

Affidiamoci ai numeri. Su 50.773.284 aventi diritto, hanno votato in 33.244.258 ergo in 17.529.026 hanno disertato le urne; come dire Liguria, Lombardia, Sardegna e Toscana non hanno votato. Mentre molti disquisivano sul bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, i numeri dicevano che il corpo elettorale si è espresso per il 65,5 %, mentre il 34,5 % non l’ha fatto; 13,3 milioni di cittadini hanno dato il 41 % al “Sì”, 20 milioni il 60 % al “No”. Il chiassoso dibattito del “dopo” è stato interessante per la reiterazione generale di un lapsus freudiano: tutti, dico tutti, giornalisti e personaggi politici, hanno parlato di risultato elettorale non referendario; tutti concordi hanno caricato di significato politico la consultazione referendaria; i cittadini, affluiti in buon numero, raggiungendo con largo margine il quorum hanno corretto la scorrettezza propagandistica; la politica italiana è restata e resta distante dai cittadini.

La rapida soluzione della crisi di governo con una compagine “fotocopia” lo ribadisce: la vistosa ammaccatura riportata da Renzi e Pd avrebbe richiesto discontinuità, si è preferita un’arrogante reiterazione che offende. Il Presidente della Repubblica, rinnegando lo studente laureato a pieni voti discutendo una tesi dal titolo “La funzione dell’indirizzo politico”, si è dimostrato torbido, cinico mestatore, o persona di poco polso. Accordiamogli il beneficio del dubbio. Anche lui, come il Paese, non ne escono bene.

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Redazione Iene Siciliane

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