POLITICA E SOCIETA’: TEMPI DI DEMOCRAZIA FASHION, MOLTO FASHION


Pubblicato il 17 Dicembre 2014

di Antonio Giovanni Pesce

Viviamo in tempi di democrazia fashion. Cioè di autoritarismo castrato dalla storia, perché di acqua sotto i ponti n’è passata tanta e indietro non si può tornare. Ma non vuol dire che il futuro sia necessariamente migliore.

Due paroline sulla differenza tra democrazia e autoritarismo. Non è detto che in democrazia le cose vadano meglio che in una dittatura. La garanzia che gli uomini al governo nel primo caso siano migliori di quelli del secondo caso non c’è, con buona pace delle repubbliche fondate sull’antifascismo, i valori della resistenza, giorni di ferie e scampagnate varie. La differenza sta nel fatto che in democrazia ci si fida di procedure e nell’autoritarismo di uomini. Nessuno dei due casi è quello perfetto, ma sulla bilancia vanno soppesati i morti del formalismo tecnico della democrazia e quelli dell’egocentricità autoritaria. E, almeno per ora, non c’è dubbio da che parte stare.

Il problema è che, ultimamente, la biglia sta prendendo velocità sul piano sempre più inclinato. Qualcuno dice che sia stato Berlusconi a portare l’ebola del narcisismo in democrazia. Nella democrazia italiana, perlomeno. Evidentemente, l’organismo non era proprio molto sano di suo, se  un solo uomo è riuscito in un’impresa quasi titanica – farsi seguire dagli italiani.

Una volta, Mussolini pedalava, trebbiava, guidava, saltava, galoppava, lottava, premiava. Soprattutto, nonostante non fosse un ragazzetto tonto, non amava l’ingratitudine. Chi la ama, del resto? In democrazia, però, bisogna rassegnarcisi. Churchill portò l’Impero Britannico alla vittoria contro il nemico nazionalsocialista, ma perse le elezioni del dopoguerra. Ed era Churchill. Chissà quando il sindaco Bianco si rassegnerà agli ingrati catanesi, pochi o molti non importa, che non riescono a capire il suo operato e che non lo ringraziano per il bene che sta facendo alla città. In democrazia è facile che t’imbatti in gente come Ignazio De Luca e il suo sodale Marco Benanti, e fa bene Enzo Bianco a querelare, gli altri giornalisti a tacere e l’Ordine a non diramare uno dei suoi insignificanti comunicati. Obiettivamente, non è un bello spettacolo imbattersi in gente come De Luca e Benanti, ma non riesco ad immaginarne uno migliore. Il meglio, il più delle volte, non è amico del bene.

Se Catania ride, Palermo si scompiscia. Dobbiamo ridere, essere attraenti, mai dubbiosi, mai incerti. Lì, a Palermo, abbiamo Rosario Crocetta, uno che ha dimostrato tutti i limiti della fashion-democracy. Meritava di non essere eletto solo per quella battuta sullo sposalizio tra lui e i siciliani: troppo bella, troppo autoironica perché non ci fosse dietro un ammiccamento artefatto ai pruriti machisti dei siciliani. Un piacione post-moderno, che speravamo non fosse anche buono. No, invece. Come Bianco, anche Crocetta e, prima di loro, padron Silvio – tutti con la mania di essere buoni, e di dover essere, per questo, compresi e amati.

Crocetta crede nei giovani. Crocetta è rivoluzione. Crocetta fa cose buone 2.0 e hastag al seguito. Quando Crocetta mise a capo dell’assessorato all’istruzione e formazione  – una bolgia che spende e spande, soprattutto spande da tutte le parti – una giovanissima studentessa universitaria come la Scilabra, i malpensanti credettero che, alla prima buca, il Presidente si sarebbe lavato le mani come Ponzio Pilato davanti a Cristo martoriato: non ci voleva molto a pronosticare che le noie sarebbero arrivate da lì, e che sarebbe stato difficile fronteggiarle anche per un rodato signorotto della politica, figurarsi per una inesperta ragazzotta. In effetti, il fallimento del Piano Giovani, con relativo scandalo scoppiato in estate, ha mostrato tutti i limiti di certa politica. Crocetta però ha difeso la Scilabra finché ha potuto. Saro ci credeva davvero. È bella, è giovane, è studentessa, ha lo sguardo trasognato – la Scilabra, dico. Vedi che fine rischia il Piano Giovani, cioè la possibilità di lavoro per circa cinquantamila giovani. E intanto, mentre non si accettano critiche, naufraga perfino il progetto CreAzione Giovani (per scegliere i nomi sono bravi): uscito nel 2013, avrebbe dovuto finanziare giovanili impegnati nel sociale e lanciare start-up. Al di là delle farraginose procedure (fideiussione a garanzia di gruppi informali), una prima graduatoria ei progetti approvati è arrivata quasi un anno e mezzo dopo. Provvisoria. Ancora si attende quella definitiva.

Il punto è questo: la fashion-democracy non distingue più le belle storie da talk-show defilippiano e la cruda e dura realtà politica. Non si accettano distinguo senza farla finire sul personale. Se lo picchi, l’uomo politico di turno può anche perdonarti: finite entrambi sul palcoscenico in cui egli è la vittima. Ma se lo critichi, magari dopo avergli anche concesso tutte le attenuanti del caso, diventi la bestia da scomunicare. Sui social network non va diversamente: le critiche calibrate finiscono per essere cancellate e rimangono gli insulti. Non spaventa ciò che è obiettivamente errato, ma ciò che potrebbe dimostrarsi altrimenti. Quell’altrimenti, a volte, è verità.

È che noi italiani non ci siamo proprio portati per la democrazia. La democrazia è questione noiosa, di aule, di fogli e carte passate per uffici in un piovoso pomeriggio. È discussione, troppe volte pacate perché uno spettatore compri un biglietto. Noi italiani siamo animali da palcoscenico, ci piace recitare e farlo a soggetto. In Sicilia, poi, abbiamo il vezzo del melodramma. E, quando vola qualche parola in più, diventa Cavalleria rusticana. O civitoti in pretura.

 

 


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