Gian Maria Tesei.
A “Volevo nascondermi” va il primo riconoscimento assegnato dal Sindacato giornalisti cinematografici italiani (Sngci) che hanno conferito alla pellicola, incentrata sulla figura del pittore e scultore emiliano Antonio Ligabue, il “Nastro dell’anno”, inaugurando così i “Nastri d’argento” che quest’anno, dopo che le candidature verranno già disvelate a fine maggio, saranno consegnati a fine giugno in quel di Roma.
Cambia quindi il luogo della premiazione finale che per questa edizione non sarà la splendida sede tradizionale ossia il Teatro Antico di Taormina, vista la complessa situazione determinatasi in virtù della pandemia ed ovviamente, assicura lo stesso Sindacato, si adotteranno il mantenimento del distanziamento sociale e l’uso delle mascherine , con la Presidente del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani – Premi Nastri d’argento, Laura Delli Colli , che ha voluto che quest’anno , ancor di più, emergesse la solidarietà con tutto il mondo del cinema che è fatto da tanti lavoratori ‘invisibili’, oltreché dagli attori e registi, che stanno avvertendo gravemente il peso della situazione attuale.
Il 21 febbraio 2020 il Festival internazionale del cinema di Berlino aveva ospitato l’anteprima di questo biopic di Giorgio Diritti, che aveva da subito ammaliato il pubblico e stregato la critica tanto da essere in competizione per la vittoria finale dell’Orso d’oro, ottenendo peraltro l’attribuzione dell’Orso d’argento quale migliore attore ad un grandissimo Elio Germano, che quasi sicuramente sarà tra i protagonisti delle candidature del Nastro come migliore attore, così come vi saranno parecchie nomination per il film stesso nelle varie categorie dei Nastri che il Sindacato giornalisti cinematografici italiani, sin dal 1946, determina per celebrare il cinema ed i suoi protagonisti, dietro e davanti le quinte.
Il Nastro dell’anno, è un riconoscimento che premia l’ensemble costituito dall’optimum recitativo per l’interpretazione del suddetto Elio Germano, dalla grande conduzione registica di Giorgio Diritti ( che firma anche il soggetto con Fredo Valla e la sceneggiatura con Tania Pedroni), nonché dal significativo apporto produttivo di Rai Cinema e Palomar.
La motivazione del premio così recita: “Un film che, con lo stile essenziale della semplicità, mette a fuoco la sofferenza e il talento personalissimo di un uomo che, attraverso l’esplosione della sua creatività irrefrenabile, riesce a riempire il vuoto della solitudine e superare il disagio dell’emarginazione e della malattia mentale. Ma, oltre il racconto di un personaggio così straordinariamente ‘diverso’, una riflessione sulle contraddizioni profonde di un mondo che – per dirla proprio con il suo straordinario protagonista – marcia a forte velocità in ogni direzione dimenticando ‘tutti gli storti, tutti gli sbagliati, tutti gli emarginati, tutti i fuori casta’, i Ligabue che sono in mezzo a tanta civiltà.”
La trama del film si impernia sul geniale pittore e scultore naïf Antonio Ligabue , ( il cui vero nome era Antonio Costa, essendo stato riconosciuto con il cognome della madre, per poi chiamarsi con il cognome del patrigno Laccabue che egli volle poi mutare in Ligabue per i pessimi rapporti proprio con quest’ultimo che per l’artista era il responsabile della morte della madre).
Il pittore nativo di Zurigo visse un’infanzia travagliata, quasi mai stando con la propria famiglia, venendo invece cresciuto da una coppia di svizzeri- tedeschi, che gli fecero da genitori adottivi( pur con un rapporto estremamente complicato ), che purtroppo versavano in situazioni economiche non floride e che furono, durante la sua adolescenza spesso costretti a spostarsi, mentre il ragazzo cresceva segnato dal rachitismo e dal gozzo, malattie che gli inflissero duri colpi nella crescita psico-fisica che solo una grande vocazione al disegno ed alla pittura riuscirono ad attenuare. Il rapporto con i genitori sfociò malauguratamente nel 1919 in un’aggressione nei confronti della madre adottiva che lo fece espellere dalla Svizzera.
“Toni”, come veniva chiamato, approdato in Italia a vivere in una capanna sulle rive del Po, sconoscendo praticamente l’italiano ( veniva definito “El Tudesc) e vivendo, da ramingo, spesso deriso ma resiliente alla sua condizione di indigenza, trova nella pittura una dimensione personale importante che gli consentirà di sviluppare la sua capacità immaginifica che egli concreterà in opere di mondi esotici e lontani, con giaguari e tigri , leoni e gorilla a popolare le sue tele ( fondamentale anche il suo incontro con lo scultore Renato Marino Mazzacurati).
Ricoverato tre volte in ospedali psichiatrici, si affida anche in quei contesti alla pittura anche attraverso autoritratti che rimarranno nella storia dell’arte contemporanea, per poi, finalmente , dopo essere uscito l’ultima volta dal nosocomio psichiatrico, riuscire a trovare , grazie alla sua arte il proprio riscatto umano e sociale, scoprendo anche le parti più intime di sé e regalandosi emozioni e sentimenti, che un mondo incapace di rispettare la diversità , aveva impedito che venissero esternate da questo grande genio dell’arte pittorica, capace di erigersi a paradigma del riscatto dell’uomo su una società incapace di comprendere le sfumature e le complesse differenze, disarmonie creative e non degli animi umani.
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