Scuola in sciopero: la “Ruota della fortuna” di Renzi si ferma domani?


Pubblicato il 04 Maggio 2015

di Antonio G. Pesce

 Gli «squadristi», come li ha definiti la signora ministro Giannini, domani prenderanno posizione in diverse piazze italiane. Sono i docenti di tutti gli ordini e gradi della scuola, roba notoriamente più forte e pericolosa di quei «quattro figli di papà» che hanno sporcato un po’ Milano – così, almeno, si sono espressi il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e la sua copia mediatica, Fabio Fazio. Entrambi comunque ben lontani dalle difficoltà lavorative dei primi e dai campi di battaglia dei secondi.

Dal momento che la Pravda di Stato, il Tg1, si guarda bene dallo spiegare i motivi di una rivolta del mondo della scuola, che non ha precedenti negli ultimi quarant’anni, perfino il più civile degli scioperi può sembrare un’idiozia: non è forse vero che il governo ha promesso l’immissione in ruolo di circa centomila persone, a fronte dei centoventimila rimasti senza lavoro grazie alla signora Gelmini, l’avvocato bresciano abilitato in quel di Catanzaro, che Silvio Berlusconi volle come ministro dell’Istruzione, ed ora con lui chiusosi nel bunker?

Quarant’anni di chiacchiere antifasciste impediscono di vedere il nocciolo della questione, e cioè che un’intera generazione è posta davanti al dilemma: lavoro o dignità. Questo è il punto. Se non si parte da qui, viene difficile spiegarsi il tutto in modo diverso da un attacco di follia collettiva. Posta su un mero fatto di posto di lavoro, bisogna ammettere che più della Repubblica fece il fascismo: «fascistissima» o no, la riforma di Gentile fu tra le prima cose fatte dal governo di Mussolini, prima ancora delle leggi – quelle sì, senza dubbio – «fascistissime» del 1926. E, per quei tempi, diede risposte al corpo docente, che oggi non sono neppure immaginabili.

Un anno fa proprio Matteo Renzi propose il metro per giudicarlo: ci disse che sarebbero stati immessi in ruolo circa 148mila persone. C’era pure la cifra esatta! Possono sembrare ancora pochi per esaurire tutti i precari che gli ultimi trent’anni hanno sfornato, ma il governo si proponeva di convocare a censimento tutti i docenti inscritti nelle graduatorie ad esaurimento: c’era la non infondata speranza, data l’appartenenza di moltissime persone a diverse graduatorie, che il numero potesse servire a placare la sete, almeno in grossa parte. Per l’esecutivo, che inserì il provvedimento in finanziaria al fine di averne copertura, arrivò l’assenso del Parlamento e, cosa molto più importante per questa nazione ormai colonia tedesca, perfino quello dell’UE. 148mila stabilizzazioni: a tanto eravamo a dicembre. A gennaio, e poi a febbraio, e poi a marzo non arrivò né il censimento, né il decreto legge per le assunzioni. In una notte – una notte! – si passò da centoventimila posti a centomila, e per giunta con lo strumento del disegno di legge: Matteo, così duro e puro sull’Italicum, volle essere democratico con la scuola.

Ora, mentre è inspiegabile la progressiva riduzione del numero di assunzioni, non lo è invece il cambiamento di strategia: il decreto non sarebbe stato firmato dal Presidente della Repubblica, e con ovvie ragioni. Sono almeno tre i punti che fanno storcere il naso anche ai più propensi al disegno di legge. Oltre, ovviamente, al fatto che il numero così esiguo di assunzioni non potrà coprire il reale fabbisogno di cattedre.

Partiamo dal meno grave. Punto primo. Nel marzo del 2014 si stanno per espletare le ultime fasi del concorso a cattedre bandito nel 2012. Uno dei concorsi più selettivi: 300mila persone per undicimila posti, tre fasi concorsuali. L’appena insediato governo di Matteo Renzi, con l’appena nominata ministro Giannini, firmano un decreto con cui lo Stato italiano si impegna a fare scorrere le graduatorie di merito, assumendo, nel limite dei posti messi a concorso, anche gli idonei, e ad attingere da questi, qualora vi fosse stato altro bisogno di personale. Che vuol dire? Vuol dire che se hai vinto il concorso, ma poi non prendi la cattedra perché preferisci quella che ti arriva dalle GaE (graduatorie ad esaurimento), magari perché più vicina a casa, il posto finisce a chi ti segue, e così fino alla copertura delle cattedre bandite. Inoltre, se ci fosse stato un ulteriore reclutamento, lo Stato si impegnava ad assumere gli idonei, personale ritenuto qualificato ad insegnare ma non vincitore. Nel ddl, denominato la “Buona Scuola”, tutto questo viene stralciato dalle stesse mani che l’hanno sancito. Peccato che, frattanto, migliaia di persone ne hanno usufruito, mentre seimila non ci sono arrivati.

Punto secondo. Fino ad oggi il personale della scuola è reclutato per metà dalla Gae e per l’altra dal concorso. Si può prendere la cattedra che arriva prima (mettersi in salvo è la cosa migliore da fare in una barca che affonda), e poi lasciarla per l’altra, se è più conveniente: ci sono infatti docenti che le hanno provate tutte per un posto di lavoro – abilitati per l’insegnamento di diverse materie e in diversi ordini di scuola, nonché nel sostegno. Se ho vinto il concorso vicino casa, ma insegno dall’altra parte d’Italia, posso scegliere, al momento opportuno, di lasciare una cattedra e prenderne un’altra, anche se ho già firmato un contratto a tempo indeterminato. Perché questo? Perché le due graduatorie (Gae e concorso) sono indipendenti l’una dall’altra e, in fin dei conti, una persona va comunque a coprire una sola cattedra, non avendo il dono dell’ubiquità (sempre che al governo non risulti diversamente!). Secondo Renzi e la Giannini, invece, bisogna scegliere in quale graduatoria inserirsi, e se ti va bene tanto meglio per te. Altrimenti, hai perso tutto. Sì, perché non è manco detto che si sappia prima di quante cattedre una provincia disponga. Una specie di Ruota della fortuna: qualche ventennio fa Renzi ne fu concorrente, oggi pare esserne diventato il conduttore. Con buona pace dell’anima di Mike Bongiorno.

A detta di qualche buon avvocato, tuttavia, e di qualche non sparuto gruppetto di costituzionalisti, proprio rispettosa delle norme vigenti questa cosa non è. Ci saranno ricorsi, e torniamo al punto di partenza: un pandemonio.

Infine – siamo al terzo punto – il ruolo dei presidi. A loro toccherà scegliere una parte del personale docente della scuola. Chi non viene scelto, rimane in un limbo, in una lista aspettando la redenzione. Questa è forse la cosa peggiore, perché fino ad oggi la scuola è stata il luogo meno corrotto e nepotista della cloaca nazionale, non essendo mai stato facile brogliare su cattedre, spezzoni di cattedre, supplenze, ecc (difficile, però, non sta per impossibile, come la lingua  insegna). Ora, qualcuno teme, forse a torto, che si aprirà con la scuola lo stesso capitolo su cui, da anni, ripete la lezioncina l’università italiana. Perfino chi non teme le riforme, presunte o tali, fa notare che non si vede perché un preside debba scegliere i migliori e non i più sponsorizzati. Per etica professionale? Certo, ma la pecora nera, che si dovesse macchiare di tale delitto, quale argine troverà? In altri paesi il ruolo dirigenziale dei presidi è ben retribuito, date le moltissime funzioni e le corrispondenti responsabilità. Ma è controbilanciato da controlli di ispettori, che qui, ormai, sono stati tagliati, tanto per risparmiare, perfino negli esami di maturità.

Come andrà a finire non è neppure difficile dirlo, ma chi dovrebbe scriverlo, ha finito lo spazio disponibile. Certo, lo si può intuire pensando alla figura del servo-padrone di hegeliana memoria: Renzi ci ha messo la faccia su questo provvedimento, e le elezioni, anche se regionali, sono alle porte. Ma non campa dei provvedimenti che emana. I docenti sono persone che tengono famiglia, i cui bisogni possono essere soddisfatti o accentuati dalla decisione di un legislatore. A tal proposito diceva J.H. von Kirchmann: «Un tratto di penna del legislatore può cancellare intere biblioteche». Anche posti di lavoro. Con o senza dignità che siano.

 


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