Marco Iacona (nella foto) sta scrivendo un pamphlet sulla destra catanese – e ci fa sapere che il titolo non sarà “Oggi le comiche” –, prendendo spunto dal pezzo pubblicato sulle Iene su Gianfranco Fini e la destra ci consegna questi “appunti”.
Su una cosa sembrano essere in sintonia i membri della destra catanese.
Sul Ventennio. E vivaddio, come se i fedeli di una Chiesa fossero d’accordo sul significato da assegnare alla sezione chiave d’un elevatissimo testo Sacro; al netto dell’intervento chiarificatore di Tizio o Caio, autorità prima o seconda d’ordine spirituale. I fascisti catanesi quando parlano del Ventennio si ritrovano autenticamente democratici: tutti uguali. Anzi, qualcosa di più d’un banale consesso democratico, ci predisponiamo ad osservare; l’apoteosi dell’“uno vale uno” è incisa nelle scarne esposizioni in tema di fascismo, sulle cui “familiarità” testuali il catanese di destra riscopre uno spirito egualitario da Terzo millennio avanzato. Ma qui c’è un asino urlante che casca. E, poverino, sembra farsi anche male. Affermare “il Fascismo è uguale per tutti i fascisti e guai a chi ce lo tocca” risolve la questione nello spazio appena visibile – regione peraltro assai congeniale al nostro catanese – ma non in una profondità opportunamente ipotizzabile, ché il fascismo è fenomeno di una complessità sconcertante, a tratti demoralizzante. L’accordo di base sul Ventennio ammette l’esistenza di un evidentissimo difetto, riposante in una “fase” necessaria idealmente propedeutica, cioè quella ordinariamente ma faticosamente acquisitiva. C’è un’“essenza” del pensiero critico basata prima di ogni cosa sulla conoscenza teoricamente inesauribile del fenomeno in parola. Dire qualcosa in merito al fascismo non significa affatto che si sappia esattamente cosa si debba dire. Con ogni probabilità, infatti, si sta già parlando di un fenomeno le cui caratterizzazioni interne, in quel contesto, si distinguono per la loro irripetibilità, tali da ricordare la meravigliosa invenzione di Furio Jesi del linguaggio delle “idee senza parole”.
Un argomento che è due in uno, sostanza e valore pervasivo e che fa proprie le “apparenze” di una fantomatica “macchina perfetta”. Il punto nodale è che per il catanese di Destra il Ventennio è allo stesso tempo storia ed emozione, e con non pigri licenze esso è realtà presente di un modello platonico “riproducibile”, istituzionalmente, socialmente, filosoficamente. Guénonianamente – anche se Guénon nulla c’entra con la filosofia e col desiderio di filosofia – esso somiglia a un “tutto” di facile intuizione ma impossibile a descriversi. Un punto massimo nel quale idee, valori e uomini si diedero convegno ben consapevoli (gli ultimi) di produrre il perfezionarsi di un lungo cammino. In realtà, però, mai interrogatisi, i fascisti, se tale ideologica (meravigliosa) perfezione fosse apparentabile a un movimento progressivo, dialettico o utopico – finanche superficialmente analizzato – in senso cinquecentesco. Un “fascismo” preconfezionato, custodito tra i massimi sistemi d’un ordinario chiacchiericcio arcipolitico. Ciò senza aver mai letto, forse solo aver intravisto qui o lì, la Dottrina del Fascismo di Mussolini & co. La questione “macchina perfetta” che non preordina né sbavature, né reazioni, taglia fuori come natura esige, ogni genere di dialettica oppositiva; le voci dissonanti sono eventualmente confinabili, se presenti, nella categoria extrapolitica del “male” o dell’“errore” o dell’“ingiusto” o del “falso”.
Tutti proni al cospetto di una “scienza” politica interrogata con strumentazione inadeguata: la pessima cavata, potrei dire, di chi ostenta (e con orgoglio) il proprio deficit di alfabetizzazione meta-politica pur, com’è noto, facendo ognora riferimento al concetto, esso sì abbastanza recente, di meta-politica. Il Ventennio, per dirla tutta, non è (o quasi mai è) un cognome o una sequenza di cognomi, né un evento o un ordine di eventi, né una serie complessa di fatti che pertengono la società italiana (o europea), eventi logicamente assoggettabili alla crisi dello Stato liberale, ai fallimenti del socialismo, al raggiungimento e mantenimento di posizioni di potere all’interno della cornice di crisi di una giovane democrazia. Non è il capitolo d’un trattato di guerra – chioserebbe Giorgio Galli – tra imperi mondiali ma quell’altrove idealizzato – prova a suo modo riuscita di un interclassismo edenico – sulla cui “impeccabilità” i membri della destra catanese, trasmettitori di verità assiomatiche, si trovano per istintiva necessità d’accordo, per “ragioni” che, tra Pascal e l’incoscienza, si danno ad appiedare la stessa ragione ordinaria. Un’essenza o “forma”, per se stessa e in ferma compagnia di se stessa.
Un fervore culturale “crossoverizzabile” che Luigi Iannone sintetizza nel primo capitolo del suo Il pensiero ribelle (La rivoluzione delle idee), del tutto sconosciuto al catanese medio. Per cui, attraversa la mente più che certo climax dannunziano, quell’Uno su mille di Gianni Morandi precisante che solo una manciata di fasciocatanesi sappia, in realtà, di cosa parla quando cita il Ventennio. Gli è che quella destra sconosce i movimenti “interni” – e le rivoluzioni “gastriche” – di una borghesia che da almeno tre secoli scrive e riscrive il romanzo di se stessa. In ogni caso (sarà chiaro a questo punto), le istituzioni del fascismo storico – qualunque esse fossero e a qualunque sottoperiodo esse facciano riferimento – non patiscono il significato gravoso del tempo. Fascismo è stato e fascismo sarà, tanto da sconfessare, semmai fossero note ai più, le accapigliature avviate già nei Settanta circa il superamento di certo regime mussolinista in favore di una prassi meno esasperata e di un’idea sostanzialmente omnicomprensiva del fare umano, a corollario di una comunitas non dittatorializzabile.
Il Ventennio della destra catanese è insomma un “mito” ignorante e come il mito greco (ai greci, i catanesi vorrebbero somigliare), esso è allo stesso tempo Storia vissuta e narrata, con la più o meno nobile clausola della sacrale “intoccabilità”.
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