(Publio Virgilio Marone, Georgiche, libro IV, verso 176)
di Carlo Majorana Gravina
Assistendo alle ultime acrobazie di Conte mi son tornati in mente i versi “E ‘l cavalier, che non se n’era accorto, / continuava a pugnar ed era morto”.
Ricordate? “Canto l’armi pietose e ‘l Capitano”? Certo le vicende politiche italiane sono ben misera cosa rispetto alla crociata guidata da Goffredo di Buglione poi celebrata nella “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso. Alla quinta strofe, il poeta sorrentino richiama addirittura i versi 142 – 144 del 2° “Trionfo della Fama” di Francesco Petrarca “Gite superbi, o miseri cristiani, / consumando l’un l’altro e non vi caglia / che il sepolcro di Cristo è in man dei cani”: un riferimento ‘alto’ nel quale vi potrebbe essere una predizione dell’attuale pontefice.
Petrarca, per saperlo, di mestiere faceva il diplomatico, quindi doveva avere una certa sensibilità e competenza in fatti politici cortigiani, locali e internazionali.
Non ho la penna e la cultura del Tasso, anche se nel titolo cito il poeta latino che Dante Alighieri chiama maestro e autore, e spero non me ne voglia se di tutto “La Gerusalemme” ho preso solo i due versi nei quali adopera una bonaria sapidità campana per bilanciare il suo “computo metrico”.
Peraltro, è evidente a tutti che Giuseppe Conte non è Goffredo di Buglione, sotto vari profili ivi incluso quello dell’effettività: anche i bambini capiscono la differenza tra vincere e perdere, un po’ meno tra essere e non essere, e così via discorrendo.
In dottrina, il d. p. c. m. è un Decreto emanato dal Presidente del Consiglio dei Ministri: ha natura amministrativa, secondo il dettato degli artt. 76 e 77 della Costituzione.
In quanto atto amministrativo, non ha forza di legge: è una fonte normativa secondaria, finalizzata all’attuazione di disposizioni di legge. Per questo non è soggetto ad alcuna conversione da parte del Parlamento ed è sottratto al vaglio della Consulta.
Solo in casi eccezionali può emanare atti normativi di rango primario, abrogare norme e resistere all’abrogazione. Tra il detto e il non detto, insomma, il nostro ordinamento ne focalizza l’eccezionalità. Ergo, l’eccezione non può diventare regola.
Va quindi adoperato con ponderatezza e prudenza. Giuseppi invece, avvocato del popolo scarso, dopo reiterate richieste di rinvio (mezzuccio da avvocaticchio), deve capire che la metafora improvvida e arrogante pronunciata al termine del dibattito che varava il Conte1, oggi lo espone davanti al tribunale del popolo: un’enorme Assise con 60 milioni di giudici popolari. Le Corti d’Assise vengono convocate e giudicano sui reati più gravi: almeno questo, Conte, dovrebbe saperlo.
Ponderatezza e prudenza pare non siano nel bagaglio culturale del personaggio, a differenza delle altre peculiarità che gli hanno fatto ignorare il sistema di bilanciamenti previsti dall’ordinamento.
Dal febbraio 2020 ad oggi, di d. p. c. m. ne ho contati 22: 22 lenzuolate di difficile lettura piene di tranelli, al pari di altri provvedimenti tipo Superbonus, e forse me ne son persa qualcuna.
La sua prima uscita a reti riunite mi colpì: in tutto il suo discorso non pronunciò mai la parola Parlamento, fatto grave per uno che governa una repubblica parlamentare.
Ormai, preso dal vortice, sembra che danzi sulle note viennesi degli Strauss: le note euforiche che anestetizzarono i governi europei del tempo, distraendoli dal disastro che si annunziava.
L’ultimo, poi, se lo poteva evitare: un d. p. c. m. con il governo in crisi è il massimo della spregiudicatezza e dell’improntitudine. La misura è colma: il popolo italiano, per non perdere, deve cambiare avvocato.
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