di Federico Tringali
Esattamente 22 anni fa, il 21 settembre del 1990, moriva Rosario Livatino, magistrato canicattinese ucciso dalla mafia, (precisamente dalla “Stidda” agrigentina) mentre percorreva, senza alcuna scorta al seguito, la strada statale 640 di Porto Empedocle (SS 640) per ricarsi presso il Tribunale di Agrigento in cui egli lavorava. Livatino, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, prestò servizio come vicedirettore in prova presso l’Ufficio del Registro di Agrigento, per poi entrare in magistratura presso il Tribunale di Caltanissetta. Nel 1979 diventò sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento e ricoprì la carica fino al 1989, quando assunse il ruolo di giudice a latere. Impegnato nel contrasto alla mafia, si occupò della cosidetta “tangentopoli siciliana”, infliggendole duri colpi, mediante anche lo strumento della confisca dei beni.
Tanto fu il suo impegno nell’indagare sui rapporti che legavano la mafia con la massoneria da ricevere l’appellativo, seppur dispreggiativo, di “giudice ragazzino” da parte dell’allora Presidente della Repubblica Italiana, il picconatore democristiano Francesco Cossiga. In seguito alla morte del giudice, l’ex capo dello Stato smentirà di aver definito Livatino un giudice “ragazzino”, mediante una lettera inviata ai suoi familiari.
Diversamente da quanto è avvenuto con altre vittime della mafia (si pensi a Falcone, Borsellino, Chinnici, Dalla Chiesa …), che hanno ricevuto una attenzione maggiore da parte dei mass media, l’uccisione di Rosario sembra quasi passata nell’ombra, come se ci fossero morti di “serie A” e morti di “serie B”. Chiunque abbia pagato con la propria vita il coraggio di contrastare qualunque fenomeno attinente alla criminalità organizzata, dai magistrati ai poliziotti, fino ai pentiti (veri), merita di essere ricordato, a maggior ragione quando si tratta di un “servitore” dello Stato e della giustizia.
Ma Rosario non era solo un uomo di giustizia: era anche un uomo di fede, ed è possibile notarlo nei suoi appunti quando scrisse <<Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili>>. Anche sua santità Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e, indirettamente, della fede. Attualmente è aperto un processo per la sua beatificazione.
Il giovane Rosario, ucciso a soli 38 anni, durante una conferenza, disse: […] “Il Giudice deve offrire di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società: questo e solo questo è il Giudice di ogni tempo. Se egli rimarrà sempre libero ed indipendente si mostrerà degno della sua funzione, se si manterrà integro ed imparziale non tradirà mai il suo mandato”.[…]
Quella dell’uccisione di Rosario Livatino, oltre a rappresentare la storia di un magistrato che ha pagato, a caro prezzo, la sua lotta contro la mafia, rappresenta anche l’impegno fondamentale dei giovani nella società, dalla politica al volontariato e alla giustizia. Un esempio che non va solo predicato, ma anche praticato!
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