“Sistema Catania”, 33 anni dalla morte di Pippo Fava: lo descrive una “sentenza-specchio”

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In occasione dell’anniversario dell’uccisione del giornalista-scrittore, fondatore de I Siciliani pubblichiamo quanto segue….

di iena antiblluff marco benanti

Domani sono 33 anni che la mafia ammazzava Pippo Fava.  La “sua” Catania, la “sua puttana”, lo ricorderà.  Purtroppo per Catania e per la sua parte più debole e indifesa, deprivata e magari sbattuta in galera (record di criminalità minorile da tempo immemore),  il “sistema di Potere” che continua a governare la città –da decenni-  è quanto mai vivo: protagonisti assoluti la “politica” (quei contenitori vuoti chiamati “partiti” o simii), l’imprenditoria più o meno “nuova”, ma soprattutto il Palazzo di cosidetta giustizia e l’informazione, con le sue luci e le sue ombre, con la sua voglia di cambiare pagina e qualche “volpe” che gioca al “cambiamento”.

Proponiamo ai lettori una sentenza di qualche mese fa:  lo facciamo perché è una sentenza che descrive in modo quanto pertinete il “sistema Catania”. Si tratta della decisione della terza sezione della Corte d’Appello di Roma che ha confermato l’assoluzione per i giornalisti Giuseppe Giustolisi e Marco Travaglio, già assolti in primo grado nel 2011 (vedi link, http://stamparomana.it/2011/02/10/liberta-di-informazione-catania-travaglio-e-giustolisi-assolti-dallaccusa-di-diffamazione-nei-confronti-del-procuratore-aggiunto-gennaro/

http://www.argocatania.org/2011/02/14/giustolisi-flores-e-travaglio-assolti-ancora-la-procura-di-catania/)

dopo essere stati querelati dal magistrato della Procura della Repubblica di Catania, per due volte presidente dell’Anm nazionale,  Giuseppe Gennaro (deceduto nel dicembre del 2015) per un articolo pubblicato su “Micromega” nel 2006 dal titolo “Arrivano i catanesi”. Gennaro aveva proposto appello contro i due.

Un pezzo di vero giornalismo che illustrava, sulla scorta di puntuale documentazione, una serie di vicende legate al “Caso Catania” (quello vero, non quello ogni tanto evocato dai “comparaggio” del sistema dominante), con al centro quanto accaduto nel comune di San Giovanni La Punta.

Non ci piaccono i rituali, non ci piacciono le “adunane collettive”, non ci piace questa Catania, così simile per tanti aspetti a quella degli anni Ottanta. Per questo ci pare quanto mai opportuno pubblicare questa sentenza proprio il 5 gennaio. Alla faccia delle “volpi” e dei “furbi” che ancora cercano di turlupinare una città che ha tanto bisogno di verità.

Da parte nostra, alleghiamo la sentenza (la potete leggere in fondo al pezzo) e qui riportiamo ampi stralci delle pagine finale, dove i giudici spiegano i motivi della la loro decisione.

“…va ribadito che i due giornalisti nello scrivere l’articolo ‘Arrivano i catanesi’ si sono basati sulla richiesta di archiviazione del procedimento iscritto  nei confronti del Gennaro per il delitto di associazione mafiosa, che era stato definito con decreto di archiviazione per l’irrilevanza penale delle condotte, in cui si ritiene accertato che lo stesso Gennaro aveva mentito in ordine ai suoi rapporti con Rizzo come era emerso dalle dichiarazioni rese da Carmelo Caruso, Antonino Gemma e Giuseppe Villaggio e dal fatto che:

-Arcidiacono aveva visto qualche volta lo stesso Rizzo in cantiere nel corso dei lavori di costruzione della villetta del Gennaro;

-Arcidiacono aveva ricevuto da Gennaro una controdichiarazione dalla quale risulta che nell’atto di vendita il suo nome fu inserito al solo scopo di non far risultare la vera identità del venditore (a fini fiscali)

-un assegno che era stato emesso da Gennaro all’ordine di se stesso e poi incassato dalla GC F.lli Rizzo snc fu consegnato in parziale pagamento del prezzo del villino;

Dagli atti del procedimento instaurato innanzi al Csm per incompatibilità ambientale proprio per i rapporti di Gennaro con Rizzo risulta altresì che:

il pubblico ministero Nicolò Marino nell’esprimere la propria opinione diede per pacifico che Gennaro avesse mentito in ordine ai suoi rapporti con Rizzo;

Michele Lo Tauro, nipote di Rizzo che lavorò per conto dello zio nella sua impresa di costruzioni, confermò che Rizzo aveva realizzato anche la villetta del Gennaro e questi ‘si recava in cantiere unitamente alla scorta’;”.

E’ ancora scritto:

“i due giornalisti hanno attinto informazioni dagli accertamenti svolti dai carabinieri fin dal 1990 e compendiati nella nota a firma del sovrintendente Rinaldi del novembre 1991, in cui si riferisce che Rizzo era il prestanome del clan Laudani (come Di Stefano Costruz e Costruz. F.lli Rizzo), e che al clan faceva capo la costruzione delle ville edificate a San Giovanni La Punta tra cui quella acquistata dal giudice Gennaro.

Era risultato in particolare che Rizzo nel curare i rapporti del clan Laudani si era occupato della realizzazione della villetta di Gennaro anche se aveva subappaltato parte dei lavori alle imprese Gurgone-Cavagno e che Arcidiacono aveva permutato il relativo terreno con la soc. Di Stefano.

Lo stesso Rizzo nell’opuscolo  realizzato nel 1995-1996 per farsi pubblicità tra le costruzioni realizzate fotografò e mise in prima pagina proprio la villetta di Gennaro.”

Proseguono i giudici: “i due giornalisti in definitiva hanno riferito fatti che i magistrati titolari del procedimento archiviato e i magistrati sentiti nell’ambito del procedimento instaurato davanti al Csm avevano considerato come pacifici.

Sulla base dei documenti istituzionali, fonti senz’altro privilegiate la cui attendibilità non era soggetta a verifica, acquisiti per fornire al lettore una informazione corretta e documentata, i due giornalisti si formarono l’opinione  che Gennaro aveva acquistato la villetta da Rizzo nonostante la rilevanza criminale del personaggio.

I due giornalisti considerarono quindi verosimile che le informaizoni in prossesso della polizia giudiziaria, che fin dalla fine degli anni ’80 riconosceva nel Rizzo un personaggio legato al clan Laudani che per conto dello stesso clan si era occupato della realizzazione delle villette, dovessero essere conosciute dal Gennaro, magistrato dalla procura.

Proprio per la funzione di pubblico ministero ricoperta dal Gennaro in una terra di mafia, i due giornalisti gli hanno evidentemente atribuito un onere di informazione maggiore rispetto a quello di qualunque altro privtato cittadino in occasione di scelte rilevanti quali quella dell’acquisto di un’abitazione, così da ritenere criticabile la sottovalutazione da parte sua anche di elementi  di sospetto (numerosi testimoni hanno riferito che era notorio che le villette in questione erano state costruite da Rizzo ed era altrettanto notorio che Rizzo era un esponente del clan del Laudani).”

Concludono i giudici: “considerato che per il reato di diffamazione a carico di un giornalista occorre verificare la verità della notizia pubblicata, oltre che la sua rilevanza e continenza, ritiene la Corte che nel caso in esame i predetti requisiti sussistono.

Considerando inopportuno l’acquisto effettuato da un soggetto che avrebbe potuto assumere la veste di indagato i due giornalisti hanno criticato con toni aspri la condotta di Giuseppe Gennaro e il loro intento è espresso fin dal sovratitolo (“Non ci piace”) e dal titolo (“Case nostre”) nel quale si allude anche al fatto che Gennaro potesse essere stato favorito nell’acquisto ovvero che tale acquisto potesse aver inquinato la sua attività di pubblico ministero presso la Procura di Catania.

Nell’esercizio del diritto di critica essi non intesero diffamare ma espressero il loro documentato e motivato disappunto utlizzando frasi peraltro rispettose del principio di continenza e hanno espresso, come ne avevano il diritto, la loro opinione.

Avendo il giudice di primo grado fatto buon governo degli indicati principi e ritenuto che i due giornalisti avevano agito nell’esercizio del diritto di cronaca quantomeno sotto il profilo putativo(art. 51 c.p.), la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato deve essere confermata, con la condanna della parte civile al pagamento delle spese dell’appello, liquidate in complessivi 1560 euro oltre Iva e CA in favore degli appellanti Giustolisi Giuseppe e Travaglio Marco.”

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Redazione Iene Siciliane

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