Un personaggio, un contesto: quello della città del denaro facile. Con la droga e la delinquenza “orizzontale” stile “gang camorristici”. E la mafia?Di Iena Marco Benanti
La crisi economica non risparmia nessuno. Non risparmia lo Stato italiano, non risparmia le grandi imprese, non risparmia gli inermi cittadini. E non risparmia nemmeno la mafia, o meglio quella criminalità in “stile camorristico” che si è affermata da tempo anche a Catania. Lasciando da parte “Cosa Nostra”, che ha storia e condotte diverse, sotto l’Etna si è andata sviluppando una delinquenza da strada che assomiglia molto ai gruppi camorristici che calpestano Napoli e la Campania. Gente che per il controllo di una “piazza” per la droga spara a vista, senza guardare in faccia a nessuno. E ‘ la Catania del clan Cappello in ascesa, con l’ala dei “Carateddi” a farla da padrona in quanto a violenza e denari in serie da accumulare con gli stupefacenti.
E’ la Catania di Gaetano D’ Aquino (nella foto), giovane “enfant prodige” dei Cappello: un tipo che può mostrare il volto, a modo suo, “terribile” (in realtà tragico e asservito al sistema che lo domina) e del “reggente” del clan e nello stesso tempo raccontare del suo lavoro di sorvegliante precario in una cooperativa per lo spazzamento delle strade.Insomma, una coop di “munnizzari”. Proprio così: oggi a Catania, i presunti “giovani leoni” sono precari delle coop, gente alla ricerca di posti di lavoro da elemosinare come un qualsiasi piccolo-borghese di provincia. Insomma, l’ “uomo d’onore” D’Aquino, killer della “Catania” della miseria culturale e politica, agogna pure lui ad una…stabilizzazione, come uno dei qualsiasi ragazzi senza “aderenze” o “nomi familiari da spendere” nel “circolo” della “Catania-bene”, della città “perbene” e strafottente, presa sempre e comunque dai “cazzi suoi”.
Una storia di provincia, quindi, di questi anni di merda, di un sistema maledetto, che umilia intelligenza e cultura e premia “fedeltà” da animali o scambio da mercanti di tre soldi. Lo racconta D’Aquino: a lui la stabilizzazione, alla fine non l’hanno data. E così, dopo essersi messo in aspettativa, lui che ha fatto? Si è dimesso. Attorno a lui, nel clan che vogliono “sfondare” ci si fa la “guerra” per quattro posti nei centri commerciali o magari capita che un lavoratore “fannullone”, ma con parentele “pesanti”, venga difeso da un malavitoso contro possibili provvedimenti sul lavoro. Anche perché –ha raccontato D’ Aquino- la politica “protegge” chi delinque. E poi ci si lamenta del fenomeno Grillo? Insomma, storie di miseria umana, di un commerciante conosciuto dalla “città bene” come Salvatore Vaccalluzzo alla ricerca della “sistemazione” di una figlia. Ma quale genitore non lo fa? Non siamo “tutti figli di mamma”? Invece, no, perché i figli “mammoni”, ma orgogliosi di non vendersi, restano a casa: “pestati” dai media alla moda e dalla “classe dirigente” che comanda. Non governa, perché di consenso non ne ha.In mezzo a questo mare di miseria umana, c’è spazio per le “legnate” al “rivale” di turno: a D’Aquino non manca nulla di questa “cultura” da gradasso da strada. Come accade, tante volte, a Catania, dove la violenza è ovunque, nelle strade, come nei posti di lavoro: legnate su legnate, anche lì, per mancanza di “rispetto” e anche per “mancanza” di obbedienza alla sopraffazione quotidiana di chi nega diritti come tanti della società dei “giusti”.E così mentre il “giovane” D’Aquino racconta la sua storia di “scalatore” della malavita catanese, il quadro che emerge è abbastanza chiaro: una quadro delinquenziale “orizzontale”, dominato dal denaro facile della droga, scambiato per mafia (non a caso D’Aquino precisa che il “clan Cappello non gestiva imprenditori”…). Quella vera, quella verticistica, continua, in silenzio, a fare affari. A proposito quanti capitali ci sono da riciclare ancora?
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