Storia e Trinacria: Garibaldi, la Sicilia e la “malattia dello Stato”

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di Fabrizio Grasso

L ’anniversario dell’unificazione italiana può essere l’occasione per raccontare, al di là di coccarde e fiocchi, le storie che, come ombre lunghe e dimenticate, hanno caratterizzato la memoria di tanti italiani, storie che ancora oggi sono sussurrate e poco conosciute. Quindi, trovo utile rammentare a chi ha poca memoria, od a chi non ha nessuna memoria, alcuni fatterelli sul Generale di Nizza.

Giuseppe Garibaldi è stato una delle prime icone moderne: famoso e famigerato, le donne (italiane e non) impazzivano al suo nome, come qualche tempo dopo a quello di Rodolfo Valentino. Un’icona globale insomma, onorato in Italia e all’estero. Con cotanto pedigree, la sua figura regna nelle coscienze degli italiani che cominciano a conoscerlo ed amarlo fin dalle scuole elementari. È nel pantheon degli eroi d’Italia per le gesta rese al servizio di quella patria che egli stesso ha contribuito a formare.

Ma sbirciando sul poncho rosso dell’eroe dei due mondi è possibile trovare qualche macchia, che rivela un’immagine meno mitica e mitologica di quello che per i siciliani è stato il Generale-Dittatore. Infatti dopo lo sbarco a Marsala, addì undici maggio milleottocentosessanta, e la successiva vittoria sulle truppe borboniche a Calatafimi, egli si proclamava (forse con l’autorità derivatagli dalla fama?) Dittatore della Sicilia. L’isola non passava già in quel periodo una fase di splendore, anzi la politica e l’amministrazione erano in un momento di gravissima crisi; la politica di Francesco II di Borbone e del suo predecessore non aveva risolto le insurrezioni del 1848-1849, causate dagli scontri sulla “questione della terra” che agitavano l’animo di contadini e latifondisti.

Sfruttando la drammatica situazione a suo vantaggio, il Generale riusciva a trovare l’appoggio dei contadini, in modo da non aver ostacolata la sua conquista, ma ad annessione compiuta, non ci pensava su due volte a disattendere le promesse fatte ai poveracci. Così, a fine luglio è nominato prodittatore Agostino Depretis, un piemontese di sinistra che ha solidi legami con il Conte di Cavour, sua unica preoccupazione è annettere al più presto la Sicilia al Regno di Sardegna. Il sogno di siciliani come Fardella di Torrearsa era così frantumato, il sogno d’una Sicilia autonoma si sgretolava nel passaggio da una monarchia ad un’altra, da Franceschiello a Vittorio Emanuele II di Savoia.

Il governo di quei mesi, fino al plebiscito d’ottobre, non s’interessò d’offrire una politica risolutiva alle questioni decennali che angosciavano la Sicilia. Perché nessuno ebbe a cuore i problemi dell’isola? Una risposta è rintracciabile nella politica postunitaria del governo italiano. Nel gennaio 1862 è abolita l’amministrazione separata della Sicilia e viene introdotta l’unificazione fiscale e monetaria. Nel 1865 le istituzioni amministrative e giudiziarie piemontesi vengono allargate al “resto” d’Italia. Come dice Lucy Riall: “Quella che si verificò dopo il 1860 fu, volendo essere precisi, la “piemontesizzazione” dell’Italia, più che la sua unificazione politica” (La Sicilia e l’unificazione italiana, Einaudi).

Non è reato considerare a questo punto l’Italia come un’emanazione politica e culturale del Piemonte, ed anche i libri non aiutano a pensar altro, perché in questi siamo definiti il “resto” d’Italia, come fossimo davanti ad una terra vergine appena scoperta, senza passato, priva d’una cultura. Dato che è ovvio che nessuna parte della penisola è diretta emanazione del Piemonte è chiaro che la politica adottata dall’esecutivo piemontese-italiano in quegli anni, con il presidente del Consiglio La Marmora, è stata una politica insufficiente a risolvere contrasti che ancora oggi sono all’ordine del giorno.

Ma per comprendere appieno la delusione di molti siciliani è fondamentale rammentare l’episodio che è passato alla storia come “la rivolta di Bronte”. È il 5 agosto del 1860, giorno stabilito per la divisione delle terre comunali, la rivoluzione pacifica dell’avv. Nicolò Lombardo viene trasformata in una guerra civile da parte di alcuni padroni e circa 400 mastri; per calmare gli sconvolgimenti e portare la giustizia, Garibaldi invia il generale Nino Bixio. Il Lombardo si presenta immediatamente al generale Bixio e da lui viene definito “Presidente della canaglia assassina”.

Bixio è ingannato dalle voci che corrono sul Lombardo (ma testimonianze e querele sono già delle prove?); il 6 agosto emana un’ordinanza di disarmo per tutti i cittadini, mentre il Lombardo si trova già in carcere. La casa del Lombardo viene perquisita e vengono ritrovate delle armi. La Commissione si affretta a sentire accusati e testimoni ed il 9 agosto si legge nel verbale: “Attesocchè la causa è sul punto di essere trattata diffinitivamente… Accordiamo agli imputati il termine di un’ora per presentare le loro eccezioni, e difese, ad eliggersi difensori, o potersi informare del processo deposito presso il segretario cancelliere… e da questo momento in poi poter conferire gli imputati
coi loro difensori.” Una sola ora per decretare dell’innocenza o della colpevolezza d’un uomo! Non parlatemi della lentezza della giustizia italiana!

L’unità d’Italia è figlia di queste ingiustizie. A questo punto anche una breve divagazione economica, visto che si parla spesso di “casta” e federalismo fiscale vorrei citare Gaetano Salvemini, che in Scritti sulla questione meridionale diceva: “La prima malattia (dell’Italia, ndr) non è un privilegio del solo meridione, ma è comune a tutta l’Italia; in questo, almeno in questo, tutti gli italiani sono davvero fratelli. È la malattia dello Stato accentratore, divoratore, distruttore; dello Stato che spende i nove decimi delle sue entrate per pagare gli interessi dei suoi debiti… è la malattia dello Stato, il quale divenuto mancipio di un pugno di affaristi e parassiti, deve opprimere con un sistema tributario selvaggio tutte quelle classi, che non prendon parte al mercimonio fra potere esecutivo e maggioranze parlamentari.”

Sono parole così attuali che subito ci rimandano alla Casta di Stella e Rizzo. Naturale che in un’Italia che ospitava al Nord un industrializzazione in fase di sviluppo e al Sud un’economia ancora poggiata sull’agricoltura, la differenza dei tassi di crescita economica sarebbe diventata il simbolo di una differenza tra Nord e Sud. Sembra, per dirla con John Dickie, che la nazione italiana sia stata pensata e costruita in opposizione al suo Sud.

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