di iena marco benanti
Al Palazzaccio, causa Covid, il funzionamento della macchina della “giustizia” prosegue più lentamente del solito (il che la dice già lunga sui “ritmi” della legalità sotto l’Etna).
Un passeggiata nel noto Palazzaccio, quindi, diventa occasione per osservare su quali “spettacoli” degni del miglior Pirandello naviga la cosiddetta “giustizia”. Un clima da Basso Impero. Per la maggioranza, gli arresti, dicasi gli arresti, sono la pietra di misura di un funzionamento “giusto” ed “efficiente” della “giustizia”. Che l’arresto sia soltanto una misura cautelare in attesa di un processo (dove, nel contraddittorio delle parti -poste su un piano di parità(!)- si formano le prove) viene vissuto da molti come un dettaglio. Gli auguriamo a costoro di vivere l’esperienza del carcere, che, come recita la Costituzione, ha funzione rieducatrice. Insomma, la galera è funzionale al recupero delle persone, non a farle marcire o peggio a tentare di farle “confessare”.
Di rinvio in rinvio, di mesi in mesi, di anno in anno, l’illusione di chi ancora crede di potere cercare “giustizia” in questo sistema, sfuma. O meglio si prende beffa degli stessi, illusi.
A vivere nella precarietà esistenziale e sanitaria restano gli avvocati, soprattutto i più giovani, alle prese con un “mercato” ormai saturo. Che impone “soluzioni” anche estreme: tradotto per un incarico o per qualcosa del genere è aperta la “caccia”. Che talora o meglio spesso non fa “sconti” a nessuno, nemmeno ai colleghi. Anche perchè c’è sempre uno spazio mediatico per farsi pubblicità, magari mescolando cronaca all’inglese e immagine all’italiana.
Il funzionamento reale della “macchina” che dovrebbe servire a mandare avanti i processi è in stato precario (per usare un eufemismo). Ogni tanto, dalle rappresentanze degli avvocati, quando proprio il livello della decenza e -aggiungiamo noi- del rischio per la salute è pressoché superato, arrivano accorati appelli, dichiarazioni, parole, flash, urla o simili. Risultato: qualche risposta che dal web finisce sul giornale di città e tutti contenti. O quasi. Insomma, non cambia niente. O quasi.
Da decenni la “città perbene” con i suoi “giuristi seri e preparati” osserva lo scandalo della ex pretura di via Crispi. Una vergogna da terzo mondo, frutto della peggiore Catania, quella della “finta rivoluzione” della borghesia “progressista-pagnottista” di città. Ma, puntualmente, quando si aprono gli ombrelli dentro via Crispi, quando si fa udienza in condizioni da autobus per pendolari (tradotto decine e decine di persone strette come sardine in pochi metri quadrati), qualcuno proprio s’incazza. E scrive che bisognerebbe fare altro.
Magari -aggiungiamo noi- chiudere quella vergogna no? Poi, certo ci sono gli “avvocati antimagistrati” ma anche loro sanno “stare al mondo” e quindi quando occorre sanno come agire. Perchè chi comanda -ma comanda davvero, come i magsitrati- vanno “disturbati” per finire sotto una telecamera, ma poi è meglio ala fine “stare nei ranghi”. Che poi si potrebbero incazzare davvero e potrebbero esserci, quindi, problemi seri.
Nella “giustizia” catanese poi ci sono i soliti momenti di ilarità collettiva legata al proclamato e mai praticato presunto “diritto di cronaca” per i giornalisti: di fatto, una “riserva doc” per gli “amici del Piemme” o magari solo a chi riesce a dimostrare la migliore ruffianeria. Quotidianamente. Così va la vita. Dicono che la vita è fatta così: più “inchini” maggiori scoop. Matematico.
In pratica, se uno fa il giornalista non gli dicono quasi nemmeno le date di rinvio dei processi (il ruolo è diventato oggetto di “privacy”?), facendo altro, magicamente, si aprono le porte delle…”carte”. Insomma, niente date di processi, ma le ordinanze di custodia cautelare, quelle sì, possono “passare”. Chi, tempo fa, aveva proposto un ufficio pubblico (con regole uguale per tutti nell’accesso agli atti!) per rendere meno incivile il “mercato nero” delle “carte” viene visto come uno che “non sa vivere”o meglio “non conosce Catania e l’Italia”. Chapeau.
E finale: magari qualcuno si è chiesto se si possono trovare famiglie dove la moglie presiede, magari come facente funzioni, la Corte d’Appello e il marito fa l’avvocato nello stesso circondario. Beh, sì, ma, in fondo, quelle polverose carte chiamate leggi, mica devono essere seguite alla lettera, mica la legalità sta a guardare simili quisquilie.
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