Con Terry Gilliam, un grande protagonista della cinematografia internazionale si staglia sulla sessantaquattresima edizione del Taormina Film festival. Il poliedrico e multiforme artista britannico ha inondato la masterclass, di cui è stato degno protagonista, della sua simpatia e bravura, narrandoci di sé e della sua carriera artistica tra sogni realizzati e battaglie lunghe, fatte di coraggio e determinazione, come quella per vedere realizzato “The Man Who Killed Don Quixote”, prodotto dopo ben 28 anni dalla sua ispirazione.
Sotto la sapiente conduzione della direttrice artistica del Festival (ruolo condiviso con Gianvito Casadonte) Silvia Bizio , per l’occasione anche ottima interprete inglese, il regista britannico ha posto l’enfasi sulle sue origini vissute nelle campagne nei pressi di Minneapolis( anche se adesso ha solo la cittadinanza Britannica), di una vita semplice, senza tv ,con la radio ed i libri ad essere gli unici connettori con il mondo ed a stimolare una certa immaginazione che si sarebbe grandemente sviluppata dopo la visione dei primi film, “Biancaneve ed i sette nani” e “Il ladro di Bagdad” di M. Powell, con quest’ultima pellicola, che, creandogli incubi notturni avrebbe fatto poi germinare la sua notissima capacità immaginifica. Ma i veri incubi per un regista, ha soggiunto, con ironia, Il comico di origine statunitense, sono trovare i fondi per produrre una pellicola e coinvolgere il pubblico a vederla.
Decisivo nell’approccio al mondo del cinema fu per Gilliam l’approdo ad Hollywood, anche se nella collina “sbagliata”(quella opposta a dove si fanno i film) e la volontà di far parte di produzioni cinematografiche anche in veste di carpentiere, il lavoro del padre. Ma il vero mutamento radicale avvenne a Londra con i Monty Phyton e la loro grande capacità artistica. Non fu semplice, come ha chiarito l’artista del Minnesota, perché con i Monty Phyton c’era una totale sintonia e controllo dei progetti, mentre gli studios non gradivano l’estro particolare di Gilliam e compagnia. E “Brian di Nazareth”, film divenuto poi famosissimo, venne bloccato sul set poco prima dell’inizio delle riprese perché ritenuto blasfemo dalla produzione, venendo poi salvato dal caro amico di Gilliam George Harrison (dei Beatles…) che finanziò il film anche fondando con I Monty Phyton stessi una casa di produzione, la HandMade film.
O come per “Brazil”che ,né gli studios ed i distributori ,né il manager dei Monty Phyton ,volevano venisse realizzato. Ed allora, prima facendo proiezioni illegali in Messico per i giornalisti (totalmente spesati nella loro trasferta oltre confine) poi ancora una volta grazie ad Harrison, che procurò un distributore, il film ottenne un favorevole successo di critica ma non di pubblico, vista la mancata promozione della pellicola.
Quando gli ho chiesto sulle scelte tecniche che hanno caratterizzato i suoi film, in cui si mescolano oggettiva irreale fatta di plongée e contre-plongée, inquadrature strambe e trasversali ed un forte uso del grandangolo, il regista ha evidenziato come non sempre decida prima. Ad esempio, in “Paura e delirio a Las Vegas”, un Benicio Del Toro drogato, viene ripreso da una camera che tende ad “appiattirsi” sempre di più fino a che il personaggio è totalmente “fatto”. Oppure in “Brazil” ha trionfato” l’espressionismo tedesco, con angoli di cinepresa bassi e l’adozione della lente larga ad impedire il “close-up”e per inquadrare maggiormente il contesto in cui si svolge l’azione dell’attore. Mentre ultimamente il registarivolge più fortemente il suo interesse alla storia od agli attori piuttosto che concentrarsi sulla tecnica, che spesso, come egli ha ammesso, si innesta in aspetti teatrali tipici dei suoi film che giocano costantemente sullo scontro tra realtà e finzione, come faceva Fellini, suo riferimento, che da raffinato ex-documentarista innalzava la realtà ad un livello ulteriore senza dimenticare mai il sogno. E senza mai dimenticare l’importanza del contributo di tutti coloro che contribuiscono ad un film, come faceva Luis Buñuel suo altro indiscusso modello.
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