di Antonio G. Pesce.
Domenica si poteva leggere nella prima lettura il profeta Isaia parlare a nome di Dio: «Le mie vie non sono le vostre vie» (Is. 55, 8), e giustamente don Michele chiosava, commentando il Vangelo sui lavoratori dell’ultima ora (cfr. Mt 20, 1-16): «Non sappiamo che cosa Dio ne voglia fare del suo Regno. Ciascuno pensi alla propria sorte, e lasci stare quella altrui», o giù di lì.
Quella fede che, proprio nel mostrarsi assurda secondo la logica umana, dimostra essere l’unica vera nell’Unico Vero Dio, afferma che il male che si compie nel mondo è contro Dio, a cui il Tutto appartiene, e che dunque, in un attimo finale, come il buon ladrone pentito, si può strappare il Regno dei Cieli chiedendo misericordia al Padrone della Vigna. Una lagrima di sincero pentimento può tutto, e dunque lasciamo a Dio fare Dio e giudicare le anime.
Ma col male non si acquista il Bene, che rimane comunque un dono anche in situazioni eticamente meno compromesse, e il male resta male anche quando Dio voglia salvare, nella sua insondabile carità, il peccatore. Sugli atti condannati anche dai tribunali, compiuti da Matteo Messina Denaro, il capomafia arrestato il 16 gennaio scorso dopo trent’anni di latitanza, e morto ieri nel carcere di massima sicurezza de L’Aquila a causa del tumore che lo affliggeva, non può scendere alcun perdono, perché la loro brutalità totalitaria non può averne, anche a causa dell’impenitenza finale davanti al tribunale del mondo. Neppure la sofferenza lo ha smosso dalla sua coriacea attestazione di incuranza, dicendolo a tutti, ai giudici di questo mondo e ai vicari di Quello dell’altro, che lui non si sarebbe pentito. Un’occasione persa, e davanti a questo spreco c’è da rilanciare ancora una volta la domanda sul senso dell’esistere. Ma un’occasione persa non soltanto per lui. Per molti, ascoltati taluni commenti.
Compiangiamo Messina Denaro, ma che dovremmo dire di chi, pur non condividendone le azioni, giudicava «bella vita» quella latitanza che, con troppo calore e colore, ci venina descritta come «dorata», ricca di amanti e di averi? Che senso può avere un’esistenza comunque, in gran parte, raminga, incappucciata, che mai può ostentare all’aria aperta quel lusso, il quale non ha altro scopo in sé che non sia l’esibizione? E quando fu arrestato, come non ricordare quanti avanzarono dubbi, quasi la sua fosse stata una gentile concessione, se non una seconda trattativa tra lo Stato e la mafia, dopo che i tribunali della Repubblica avevano già smentito l’ipotesi investigativa della prima?
Non è vita quella che conduce gli uomini, nati per la libertà, a vivere intanati in tane che, per quanto splendenti, sempre tuguri sono per chi conosce la chiarezza della vita pubblica. Una vita sprecata è quella passata ad imporre agli altri la prigionia della violenza, quando il primo carcerato è proprio colui che ordina stragi, sgozzamenti, soprusi di ogni tipo. Chi può considerare «un vincente» chi ordina il soffocamento e lo scioglimento nell’acido di un bambino? Chi può considerare «un furbo» colui che, vistosi ormai finito, non si regala neppure l’ultimo atto di dignità arrendendosi, non dico collaborando, ma almeno avendo la forza di dirsi vinto? Che ingegno può avere chi mena spocchia davanti alle sbarre che, presumibilmente, faranno da feretro?
Eppure, Matteo Messina Danaro è stato trattato da mito, e alla sua mitologia ha creduto anche lui. Perché, se egli ha avuto una vittoria, l’ha colta solo su quella parte della comunità politica eticamente debole e minata dall’ideologia dell’antistato o dall’egocentrismo di certo civismo. Sulla prima c’è poco da dire: è un marchio tipicamente italiano. Lo Stato unitario non è nato bene, e questo è un fatto. Ma credendo poco alle vie tortuose che la Provvidenza può imboccare per giungere ai suoi scopi, taluni lo hanno avversato dall’inizio ad oggi, cultori di dietrologie che fanno della Storia un teatrino di marionette, in cui ad essere all’oscuro del copione sono sempre gli altri, perché essi invece hanno capito tutto, tutto scoperto, tutto svelato. Poi, ci sono quelli che sono rimasti delusi dalla fine di un regime, quello Fascista, che se fosse rimasto in auge ai nostri tempi forse avrebbe avuto almeno il merito di non fidarsi di questi avanzi di folclore, spolverato di tanto in tanto con un saluto romano per mettere in pace la coscienza, e poi tornare a fare i buoni borghesi al riparo delle garanzie liberali. Infine, oltre alla borghesia nostalgica, abbiamo pure quella sognante paradisi terrestri: è dagli anni Sessanta che lo Stato di diritto, vogliano o no i suoi nemici, resiste agli attacchi dell’utopismo armato – Brigate Rosse o Anarchismo combattente o altro ancora che sia.
In un calderone di revanscismo antiliberale, anche un criminale può essere bollito in salsa di mito, non perché lo si reputi degno di stima, ma perché non si reputa degno di rispetto lo Stato – o perché debole, o perché colluso, o per entrambi i motivi. Come se lo Stato fosse una sola persona, e per giunta quella sbagliata, e non già milioni persone – magistrati, poliziotti, carabinieri, finanziari, soldati, pubblici ufficiali, politici perbene … come se la società politica non fosse composta anche da Libero Grassi, dal giudice Livatino, da Piersanti Mattarella, ecc.
Più complessa è la questione dell’egocentrismo civico. C’è antimafia e antimafia, e una di queste affronta le questioni con lo stesso piglio con cui certi bambini viziati prendono il pallone e se lo portano via, se non si accende su di loro la luce dei riflettori. Possiamo capire come la cattura del superlatitante sia stata indigesta: anni e anni di libri di Tizio e Caio; interviste a due, quattro, sei mani su Sempronio; trasmissioni televisive; dibattiti fiume; e poi arrivano Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido, che manco hai sentito nominare, e un colonnello dei carabinieri, Lucio Arcidiacono, per giunta dei Ros, e te lo arrestano. Ovvio che il merito non è soltanto loro – ci mancherebbe che liquidassimo così decenni di indagini! – ma che non sia esclusivo di amici e amici di amici è una cosa che da quelle parti fa saltare i nervi.
Si rassegnino tutti: una vita lontana dalla libertà a causa del male non è una vita piena. E la comunità politica – quella che banalmente identifichiamo con lo Stato – ha vinto anche grazie alle strutture di cui si è dotata. Non ha debellato il male, perché nel campo di grano ci sarà gramigna fino all’ultimo giorno, ma tanto si è fatto ad opera di chi, quando deve muovere una critica, opera altrimenti e non si limita a chiacchierare.
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