Catania è una città brutta. Il mio dichiararla tale non è una provocazione, semmai una constatazione frutto di un ragionamento articolato ma aderente alla realtà. Victor Hugo diceva che le città sono libri di pietra, e Catania è un libro dalla sintassi nevrotica, sgrammaticata, dalle metafore morte, prive di significato e di significante. É un libro che viene la voglia di chiudere dopo aver sfogliato le prime pagine, perché non racconta nulla, non trasmette alcuna emozione, e l’unica eccitazione che trasmette è quella del disordine e del caos.
Ed è quello che pensano i turisti quando approdano a Catania, statene certi, perché una volta usciti dalla Stazione, dal Porto e dall’Aeroporto, la città che si presenta ai loro occhi è quella votata al degrado, alla illegalità diffusa, è quella che vanta una architettura iconica spregevole, è quella che ha un alito orrendo e riprovevole a causa dei rifiuti abbandonati in ogni angolo, è quella della morale sudicia dello scooter, che non ha regole, che non vuole regole, irriguardosa e arrogante. Tre luoghi che dovrebbero essere il miglior biglietto da visita, e che invece rappresentano la perfetta sintesi di questa città. Catania è una città brutta perché è vittima di un Leviatano, non nell’accezione hobbesiana, ma in quella biblica di mostro, creato e non generato da un patto tra politici, imprenditori, massaie, disoccupati, operai, intellettuali e mafiosi. Un mostro che tutt’ora le divora la carne e l’anima, un mostro che respira attraverso deleghe e silenzi conniventi, attraverso la logica dell’utile e la corsa al consenso. Catania è brutta: rivendico il diritto a gridarlo, e sono pronto in ogni occasione a spiegarne i motivi.
É brutta perché non ha un’anima e perché non ha un destino, oltre che una visione. Catania è un “non luogo”, inteso come spazio anonimo, incapace di creare un minimo rapporto con il cittadino, e laddove è luogo( quartieri e centro storico) è arida, improduttiva e decisamente brutta. Non è una “città sostenibile”, perché non riesce a mediare tra il diritto e le aspettative, tra l’uomo e la natura, tra le esigenze della natura e quelle della tecnica. Non è una “città impresa”, perché non è mai pronta ai cambiamenti, alle mutazioni, e pertanto non sa rigenerarsi. Le sue sono dinamiche dis-attive, prive di progettualità, senza alcuna innovazione e immaginazione. È una città che non sa proporsi, non sa vendersi, che non sa attrarre investimenti. Non è una “città creativa”, perché non sa raccontarsi e perché non è iconica. Perché i suoi spazi rimangono orfani di narrazione e colmi di rifiuti. Non è una città estetica, perché non ha mai qualificato lo spazio urbano, non ha mai armonizzato il suo rapporto con i cittadini, perché la sua immagine è quella delle strade dissestate, i marciapiedi distrutti, i parchi ridotti a pisciatoi o discariche, dell’ indecoro urbano, dei graffiti a sfregiare i palazzi che dovrebbero raccontare la Storia, dei posteggiatori abusivi ad ogni angolo, dei posteggi selvaggi, del degrado diffuso. Perché non è più identitaria, né simbolica, né narrativa. Non è una “città sicura”, perché è antropologicamente abbrutita, è ansiogena, e vive ormai stabilmente dentro un incubo, piuttosto che dentro un sogno.
È una città che vive l’inciviltà in tutte le sue declinazioni: materiali, intellettuali, comportamentali, sociali, burocratiche. Non è una “città conviviale”, perché non offre spazi di socialità, perché sa solo abbandonare gli spazi pubblici o li offre consapevolmente all’incuria o alla inciviltà. Non è culturale, perché i suoi politici sono somari che non hanno alcuna visione, i suoi intellettuali sono autoreferenziali e spocchiosi, i suoi cittadini preferiscono un giro di neomelodico ad un giro di letteratura. Questo sarà il primo articolo dedicato all’analisi logica di Catania, il primo passo di un percorso che mi auguro stimoli un dibattito in una città dove non si discute più da troppo tempo.
Gianni Coppola.
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